CATANIA – Un caso che ha commosso l’Italia. La storia di una famiglia distrutta. Il 19 settembre 2019 a Catania un piccolo di due anni muore. Il cuoricino smette di battere dopo che trascorre diverse ore nell’auto del padre, che andando al lavoro all’università dimentica di lasciarlo all’asilo. Una tragedia nella tragedia che per “atto dovuto” diventa un’indagine giudiziaria, che a un anno di distanza è archiviata.
“Amnesia dissociativa”
Il gip Pietro Currò accoglie la richiesta del pm Andrea Norzi. La posizione del giovane papà, assistito dall’avvocato Giorgio Antoci, è dunque archiviata. “Alla luce delle risultanze investigative – si legge nel decreto – non sono emersi elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio in relazione al reato ipotizzato per difetto della capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto in conseguenza di black-out mnesico o amnesia dissociativa transitoria occorsa – argomenta il giudice – in un contesto caratterizzato da un agito routinario da parte di un soggetto unanimemente descritto dalla compagna, dai familiari e dai colleghi di lavoro come padre attento e responsabile”.
L’indagine come atto dovuto
Le indagini, infatti, non si fermano “alla ricostruzione del fatto e all’accertamento del decesso”, ma – spiega il pm nell’istanza – si incentrano “sulla verifica della coscienza e volontà della condotta dell’indagato, poiché questo aspetto costituisce l’elemento centrale al fine di vagliare l’eventuale sussistenza della responsabilità penale”. Ed è per questo, che dopo l’analisi cronologica di quanto accaduto in quel maledetto 19 settembre, il pm conferisce l’incarico a un consulente per una perizia psichiatrica che non lascia adito a dubbi.
Gli attimi della tragedia
Quella mattina il giovane papà “esce dall’abitazione dei genitori della compagna al fine di recarsi all’istituto universitario in cui svolge attività di ricerca dimenticandosi di accompagnare il figlio all’asilo lasciandolo all’interno della propria vettura parcheggiata nel piazzale all’aperto”
Alle 13.30 arriva la telefonata che lo rende consapevole. La nonna va all’asilo a prendere il piccolo ma non lo trova. Allora chiama la figlia, che allarmata contatta il compagno al telefono. In un primo momento il giovane ricercatore la rassicura, poi realizza “di non ricordare con esattezza di aver accompagnato il figlio”. Corre a controllare l’auto nel parcheggio e all’interno c’è il piccolo “privo di sensi”. Tenta di rianimarlo, ma poi corre al Policlinico. Lo mette nelle mani dei medici del pronto soccorso. Ma è tardi. Troppo tardi. “Alle 14.46 il personale medico dichiara il decesso del piccolo”.
La perizia psichiatrica
La perizia psichiatrica è chiara: “L’indagato al momento del fatto si trova in condizioni di capacità di intendere e di volere escluse a causa di un breve ma profondo stato dissociativo per che alcune ore ne ha alterato i processi di coscienza e consapevolezza”. Per il pm l’indagato è “privo della capacità d’intendere e volere al momento della commissione del fatto, non potendosi rendere conto del rilievo della propria azione, né essendo in grado di autodeterminarsi consapevolmente”.
La condanna più atroce
Da queste valutazioni il magistrato chiede l’archiviazione, che il gip dispone. Una pagina si chiude, ma restano aperte le ferite di un dolore inconsolabile. Di un uomo devastato e che già ha subito la condanna più atroce: la perdita di un figlio che – come emerge anche dalle carte giudiziarie – amava profondamente.