"Il sindaco è irriconoscibile|Ecco perché mi sono dimesso" - Live Sicilia

“Il sindaco è irriconoscibile|Ecco perché mi sono dimesso”

L'ex assessore parla per la prima e ultima volta dopo le dimissioni: "L'orlandismo non è di Orlando".
L'INTERVISTA AD ADHAM DARAWSHA
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5 min di lettura

PALERMO- “Ieri ho presentato al sindaco Leoluca Orlando le mie dimissioni da assessore alle Culture del comune di Palermo. Ho cercato di dare il mio contributo a questa mia amata città. Ma oggi è tempo di girare pagina. Ringrazio tutti quelli che mi hanno accompagnato”. Nel luglio scorso, il commiato con cui Adham Darawsha annunciava il suo addio e la sua rottura rispetto all’esperienza politica di un sindaco che l’aveva fortemente voluto. Di recente, il post con cui liquida alla stregua di “gogna” le puntate social annunciate come deterrente contro gli incivili, sulla pagina Facebook dello stesso Orlando.

Chi è Adham? A prescindere da simpatia o antipatia, dai giudizi legittimi in un senso o nell’altro, pare di cogliere in lui una profonda e ribollente passione per Palermo e una altrettanta robusta vocazione al dissenso, senza guardare in faccia nessuno. Infatti, nel corso di questo colloquio, lo dirà: “Ho Palermo nel sangue”. Lui, che abita a Ballarò e proviene da Nazareth. Lui che, a chi criticava la scelta di un ‘assessore venuto dalla fine del mondo (semicit)’, rispondeva con una battuta: “Tu hai nel tuo cuore Dio che viene da Nazareth. E non puoi accettare un assessore alle Culture?”. Lui che qui parla per la prima volta, da quando si è dimesso.

Perché, Darawsha?
“Sì, è vero, è la prima volta che parlo sull’argomento e sarà pure l’ultima. Ma non voglio dare fuoco alle polveri, il mio intento è quello di provocare una scossa. Un richiamo a un cambio di rotta nel rispetto dei nostri valori”.

In chi?
“Nella maggioranza che ha giustamente confermato la fiducia al sindaco. Ora questa maggioranza deve pretendere che il giusto cammino non sia abbandonato”.

Il giusto cammino? In che senso?
“Non è possibile che si montino i dissuasori sulle panchine senza che, al Comune, nessuno ne sappia niente. Non è possibile rivendicare come successo la gogna social, come l’ho chiamata. Perché il prossimo passo è la citofonata, in pieno stile Salvini”.

Addirittura. Non starà esagerando?
No. E, ripeto, non parlo per me. Io ho la mia professione, sono un medico. Non campo di politica. Anzi, metterei la regola: chi vuole fare l’assessore deve avere un altro mestiere e non campare di politica. Cambierebbe molto il suo approccio! Ancora: pochi vogliono bene come me a Leoluca Orlando, ma, in questo momento, a Palermo il sindaco è quasi irriconoscibile. C’è qualcosa che non va. A Palermo occorre l’amministrazione e una giunta che lavori collegialmente”.

Lei ha un lungo percorso alle spalle.
“Sono stato presidente della Consulta delle Culture. Mi sono sempre battuto per la vera vocazione dell’Orlandismo tanto da essere quasi più orlandiano dello stesso Orlando e gliel’ho pure detto in qualche occasione. Credo nei diritti e nell’inclusione. Palermo ha tanti problemi ma non deve dimenticare la sua anima”.

Com’è l’anima di Palermo?
“Accogliente. Inclusiva votata alla vita sociale e socievole. Le piste ciclabili, la mobilità, i cantieri, la Rap, la Reset sono questioni fondamentali pure … . Ma è essenziale non retrocedere sui diritti e sul rispetto delle persone, sul nostro modello di comunità  che abbiamo portato avanti, tutti. Non può essere Palermo che mette i dissuasori o che, insisto, promuove la gogna. Questo lasciamolo fare ad altri”.

Lei è medico, appunto. Quali sono le malattie della città?
“Sono croniche. E non si può trattare un malanno cronico come se fosse acuto. Questo è il mio punto di dissenso, che mi ha spinto ad andare via. Palermo non ha bisogno di una notizia al giorno, di un comunicato stampa al giorno, di un effetto speciale al giorno, come un malato cronico non ha bisogno di andare, quotidianamente, al pronto soccorso. La cura va somministrata con attenzione, lavorando, e senza che il medico si lasci stressare dall’apparenza, perché è la terapia azzeccata che salva”.

Che reazioni ha misurato dopo le sue dimissioni?
“Alcuni, dalla giunta e dal Consiglio, mi hanno apprezzato, mi hanno detto: ‘Adham, hai fatto bene, non se ne può più’. Però sono rimasti al loro posto. Rinnovo l’invito alla maggioranza di pretendere che la rotta sia corretta e che sia coerente con la visione, anche se il termine non mi piace. L’Orlandismo non è di Orlando, appartiene a tutti noi”.

Ma, esattamente, cosa è accaduto?
“C’era il dissenso di fondo per le cose che ho spiegato. I rapporti erano già logori e il lockdown non ci ha aiutato. Io credo di essere stato utile. Avevamo un programma con tanti eventi che, in molti casi, si sarebbero pagati da soli, guadagnandoci anche. Ho rimesso su un assessorato che era completamente esautorato nella gestione Manifesta e Capitale della cultura, affidato ad altri di fatto. Il Coronavirus sta cambiando l’umanità, non si poteva pretendere che, a Palermo, non accadesse niente. Comunque il sindaco ha realizzato grandi cose in passato, nessuno può disconoscerglielo”.

In qualche passaggio della chiacchierata si avverte il sentimento di una decisione sofferta.
“Lo è stata, ma era anche corretta. Non mi piace la cultura dell’aperitivo o dello spettacolo fine a se stesso senza la capacità di creare delle ricadute sul territorio e sulla società, è effimera. Preferisco il cous cous al popcorn: ci vuole tempo per cucinarlo, ma, poi, che delizia… Sarà perché sono arabo e so che le persone migliori stanno nel popolo, non nelle cosiddette aristocrazie. Vivo a Ballarò, nel cuore autentico della città e non ho mai pensato di vivere di politica. Impegnarsi come politici è una missione: si va e si torna”.

Palermo, adesso, è la sua casa.
“Mi è entrata nel sangue, la amo e dobbiamo difenderla perfino dal suo sommo pontefice, se sbaglia o se cambia strada, senza incorrere in errori che possano consegnarla anzitempo ai barbari”.

Sento abbaiare, in sottofondo…
“Sono i miei splendidi cani. Uno di loro l’ho raccolto in un piazzale, per strada. C’erano altre macchine, nessuno lo ha accarezzato. Io l’ho preso con me, era sporco, ferito, uno scheletro. Mi sono innamorato dei suoi occhi. E adesso, quando passeggiamo, tutti si complimentano: ‘Che bel cane’. E io rispondo: ‘Bello, sì, come tutti quelli che sono amati’”.


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