Dalla zona rossa in aula: "Io vittima del pizzo" - Live Sicilia

Dalla zona rossa in aula: “Io vittima del pizzo”

Un imprenditore di Misilmeri è parte civile al processo contro i suoi presunti estorsori

PALERMO – Le vittime del pizzo sono state convocate per ricostruire le estorsioni subite. Fuori dall’aula qualche mugugno tra gli avvocati, non per il ruolo delle parti civili, ma per il fatto che arrivavano da Misilmeri, paese nel Palermitano dichiarato zona rossa per il numero dei contagi Covid.

La loro audizione si poteva evitare, hanno detto, tenendo conto che il tribunale, vista la complessità del processo, ha congelato i termini di custodia cautelare degli imputati. I testimoni hanno atteso davanti all’aula, al secondo piano del Palazzo di giustizia, indossando sempre la mascherina.

Sotto processo ci sono Pietro Merendino, considerato il capomafia di Misilmeri, Francesco Fumuso di Villabate, Stefano Polizzi di Bolognetta, Simone La Barbera di Mezzojuso, Giusto Amodeo di Misilmeri, Pietro Lo Sicco di Capaci. Si tratta del troncone celebrato con il rito ordinario nato dall’inchiesta “Cupola 2.0” che nel 2018 scompaginò la riorganizzazione della nuova mafia. Tutti gli altri imputati hanno scelto di essere giudicati con il rito abbreviato.

Sono state quattro le persone ascoltate dal tribunale presieduto da Salvatore Flaccovio e tutte hanno ricostruito una presunta estorsione messa a segno da Merendino. In particolare, un imprenditore di Misilmeri ha ricostruito il suo “incubo”.

Un incubo iniziato quando uno dei suoi operai si infortunò sul lavoro. Sembrava tutto risolto ed invece ad un certo punto Francesco Mangiapane, processato con il rito ordinario, si presentò a nome del suocero e vittima dell’incidente. Pretendeva un risarcimento di 140 mila euro che poi scese a 80 mila euro e infine a 45 mila. Iniziarono pressioni e continue telefonate da parte di Mangiapane.

Ad un unico appuntamento Mangiapane si fece accompagnare da Merendino. “Volevano soldi in contanti, 500 euro al mese, ma io gli dicevo ‘siamo a terra’ non abbiamo neanche i soldi per mangiare. Una volta gli ho dato 400 euro, li ho tolti di bocca alla mia famiglia”, ha raccontato in aula l’imprenditore. Merendino in quell’incontro cercò di mettere una buona parola per trovare un accordo fra le parti. Con che ruolo, chiede il pm Gaspare Spedale e il testimone parla di generiche voci di paese secondo cui Merendino aveva un certo peso mafioso. Ecco perché il legale di Merendino, l’avvocato Cinzia Pecoraro, sostiene che “ancora una volta non emerge alcun ruolo mafioso di Merendino”.

Non poteva onorare il debito e così alla fine raggiunse un “accordo“: lo costrinsero a chiedere un prestito di 24.000 euro ad una società finanziaria con la scusa di acquistare un’autovettura. Alla fine, l’imprenditore decise di non sottostare più alle angherie mafiose e si rivolse al comitato Addiopizzo, parte civile al processo con l’assistenza dell’avvocato Salvatore Caradonna.

La vittima dell’estorsione ha riferito del supporto psicologico ricevuto dall’associazione antiracket, ma anche dell’aiuto materiale visto che è riuscito a rescindere il contratto con la finanziaria che gli ha restituito i soldi delle rate pagate.


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