Caro Totò, morto di Covid e senza neanche un saluto

Caro Totò, morto di Covid e senza neanche un saluto

Lettera a un amico che ha aiutato gli altri ad andarsene, ma se n'è andato da solo.

Caro Totò

diceva Sir Henry Scott Holland “quando sarà il mio momento, non darti pena per me, la morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto”. Ci pensavo ieri, non appena ho saputo di te. Ci pensavo perché sul momento ci sono rimasto male, molto male, devo dirtelo. ‘Senza un saluto, una parola, una stretta di mano’, dicevo, e non sapevo con chi prendermela: se con il virus o con il destino. O con le nostre vite che procedono nel convincimento scontato del nostro esserci sempre, gli uni per gli altri, senza possibili cambiamenti, nella falsa e illusoria immutabilità del nostro presente. 

Carissimo Totò, perché così? Perché, primo infermiere palliativista in Sicilia, dopo aver creduto nell’umanità del buon morire, aver lavorato tanto per curare l’ultimo tratto di vita della gente, aver fatto della tua vita professionale ed umana un unico grande inno alla vita, da rispettare ed amare fino all’ultimo, proprio tu te ne sei andato così? Dimmi se non è una beffa, una ripicca, uno sberleffo del destino, se questa maledetta malattia che ci contagia nei corpi e ci allontana nelle anime ha la pretesa di cancellare con una spugna leggera tutto quello che abbiamo costruito ed in cui abbiamo creduto: l’importanza di stare accanto a chi muore, il conforto delle mani strette, gli ultimi sguardi, l’ultimo calore prima del commiato. Ecco perché non potevo crederci, quando mi hanno detto di te e del tuo ultimo tempo, in un letto isolato, in un luogo anonimo. Nessuno di noi ti ha visto soffrire; nessuno ti ha visto morire. 

Per molti anni abbiamo fatto squadra e condiviso esperienze incredibili, io medico verde-mela, tu infermiere con l’esperienza e la resistenza delle querce. Poi ci toccò di trasmettere le nostre conoscenze anche altrove, in giro per l’isola; divenimmo formatori, inesperti sul modo di fare didattica ma forti di un sapere esperienziale cresciuto a dovere, ben fiorito, ben nutrito. Nei lunghi spostamenti da un capo all’altro della Sicilia, attraversando piogge e sprazzi di sole di pomeriggi in autostrada, da colleghi-amici che eravamo prima, diventammo fratelli. In macchina trascorremmo ore e ore. Si cominciò con il calcio e con rispettivi, privati e riposti trascorsi di gioventù, secondo un canovaccio consueto, fatto da secoli di conversazioni maschili al bar, o nei circoli, o all’angolo della strada. Ridevamo; ridevamo molto. Passavamo dalle profonde analisi alle considerazioni più sarcastiche e taglienti con la leggerezza dei compagni di scuola, con i tempi spontanei che ci dettavano i nostri stati d’animo e i nostri inverni, a volte piovosi, a volte luminosi. Poi, anime pellegrine, trovammo anche lo spazio per i nostri convincimenti più profondi, per i nostri atti di fede, e l’agio per nostre confessioni, seguite da nostre reciproche assoluzioni laiche.  

Caro Totò, ho compiuto un gesto assurdo. Nei lunghi giorni del tuo ricovero in rianimazione ho provato a chiamarti al cellulare, sapendo perfettamente che sarebbe stato impossibile per te rispondere. L’ho fatto immaginando che almeno potessi vedere il mio nome sul display, mentre squillava. Ho, insomma, provato ad esserti presente ancora, con ostinazione, mentre lontano dai nostri occhi attraversavi una strada sconosciuta. Voglio pensare che te ne sia accorto; non mi resta che questa illusione. Un altro di noi ti ha mandato un messaggio vocale un attimo dopo aver saputo della tua morte. Che strane cure, che strane attenzioni. Che strani siamo noi, nel cercare sincera umanità contro ogni logica. 

E nessuno di noi ti ha visto soffrire, nessuno ti ha visto morire. Un paradosso da riderci insieme, con sarcasmo ed amarezza, se ancora fosse possibile. Ci rimane il fermo-immagine dell’ultimo incontro, poco tempo prima; l’ultimo “beh, ci vediamo”, l’ultima raccomandazione su questo e su quello, senza il minimo sospetto che si trattasse di una liturgia finale. La falsa immutabilità del nostro presente, dicevamo. 

Carissimo mio, quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora; continuerò a ridere di quello che ci faceva ridere insieme: sei nella “stanza accanto”. E continuerò a pensare che la disumanità del tuo ultimo tragitto possa essere stata almeno un po’ mitigata da un’ultima stretta di mano, la mano inguantata di un operatore, che magari ti avrà riconosciuto, restituendoti una scintilla di umanità. 

Anche tu avresti fatto lo stesso.

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