PALERMO – Tutti assolti gli imputati del processo sulla presunta bancarotta a fraudolenta della T-Link, la compagnia di navigazione che doveva collegare Termini Imerese e Genova.
T Link si era proposta come l’alternativa ai colossi della navigazione. Il progetto, però, fallì. Il socio di maggioranza era il fondo Cape Regione Siciliana, uno dei pezzi pregiati dell’impero del finanziere agrigentino Simone Cimino.
Assieme a Cimino sotto processo c’erano Edoardo Bonanno, Stefano Costa, Onofrio Contu, Luca Romeo (ex amministratori e revisori di T Link) e Giovanni Maniscalco, commercialista liquidatore della società, ex amministratore delegato della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo.
I difensori degli indagati, gli avvocati Marcello Montalbano, Antonino Gattuso, Francesco Bertorotta, Giovanni Rizzuti, Raffaele Restivo, Carlo Golda, David Mascia e Marcello Elia hanno sempre sostenuto di potere dimostrare l’estraneità alle accuse contestate dai pubblici ministeri.
La quinta sezione penale del Tribunale, presieduta da Donatella Puleo, ha mandato assolti gli imputati e trasmesso gli atti alla Procura affinché valuti l’esercizio dell’azione penale per i pagamenti successivi alla data del fallimento.
Quello costruito da Cimino, finanziere agrigentino, è stato un impero economico sgretolatosi pezzo dopo pezzo. Era pure finito agli arresti per alcune operazioni legate a Cape Live, la creatura da lui portata in Borsa nel 2007.
Dei suoi progetti faceva parte anche il Fondo Cape Regione Siciliana (poi messo in liquidazione), ossia il primo Fondo di private equity gestito da Cape Regione Siciliana Sgr, una società di gestione del risparmio costituita nel 2006 da Cimino & Associati Private Equity (Cape) con una quota del 51 per cento e dalla Regione siciliana con il 49 per cento con l’obiettivo di investire nel capitale di rischio di aziende operanti nell’Isola.
Tra queste, c’era anche la T-Link. La società di navigazione, sovvenzionata con fondi pubblici, produsse solo perdite e fu dichiarata fallita dal Tribunale nel marzo 2012. Tra i soci anche colossi nazionali quali Moby SpA e Caronte and Turist SpA, che hanno investito milioni di euro perché credevano nell’iniziativa imprenditoriale.
Secondo l’accusa, il fallimento sarebbe stato provocato dalla gestione del managment che avrebbe noleggiato le navi “ad un prezzo notevolmente maggiorato rispetto al prezzo di mercato provocando alla società un danno di 3 milioni e 700 mila euro”. In più, sempre secondo il pm, prima della procedura fallimentare i vertici avrebbero liquidato fatture per circa tre milioni “a scopo di favorire a danno dei creditori taluni di essi”.
Una ricostruzione che non ha retto al vaglio del Tribunale. Secondo la difesa, ogni azione intrapresa dai manager e dai liquidatori era stata trasparente e aveva come obiettivo il tentativo di salvare l’azienda, non certo di dissipare il patrimonio della stessa. Il fallimento fu dovuto al mutamento degli equilibri di mercato, alla concorrenza e all’aumento esponenziale del prezzo del carburante a causa della crisi libica nell’autunno del 2010.
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