"Ma il passato non è una terra straniera" - Live Sicilia

“Ma il passato non è una terra straniera”

L'analisi del procuratore aggiunto di Catania Francesco Puleio.

La cattura in Francia di nove italiani (uno è ancora ricercato), condannati per reati di terrorismo, dopo decenni di latitanza trascorsa oltralpe, sta sollevando nel Paese numerose e contrastanti reazioni, tutte accomunate dall’intensità del fervore emotivo con il quale quelle vicende (i cd. anni di piombo) sono ancora percepite. Accanto a chi afferma che la giustizia, seppure con ritardo, ha trovato finalmente un principio di attuazione, altri provocatoriamente si chiedono se giustizia possa dirsi quella attuata con tanto ritardo dai fatti contestati e che senso abbia infliggere una pena, anche se per fatti gravissimi, dopo 40 anni. Non credo che siano sufficienti a giustificare tanto vigore polemico (fermo il rispetto, sia ben chiaro, sul piano personale ed umano dei protagonisti della vicenda) l’età avanzata, le precarie condizioni di salute degli arrestati e la loro presente lontananza culturale da un passato sciagurato. Forse, troppo disinvoltamente, una lobby trasversale formata da vecchi compagni (di strada) degli scappati, ancora presente nelle istituzioni e nella società, dimentica che la pena ha anche una funzione retributiva, oltre che preventiva e rieducativa. Vero è soltanto che di giustizia tardiva si tratta: ma altrettanto vero è che una tardiva giustizia è sempre preferibile al protrarsi dell’ingiustizia.

A tal proposito bisogna ricordare che questi soggetti hanno evitato l’esecuzione della pena non per lungaggini processuali a loro non ascrivibili, ma con la fuga e la latitanza, protratta per decenni. In questo senso gli arresti concludono un tempo infinito di ambiguità e compromessi, quando non di favoritismi. E la storia offre numerosi esempi di giudizi celebrati e di vicende giudiziarie portati a compimento a molti anni di distanza dai fatti. Gli israeliani catturarono in Argentina dove si era nascosto Adolf Eichmann, ufficiale nazista tra i principali responsabili della deportazione ed eccidio degli ebrei ungheresi, dopo vent’anni dalla fine della guerra, lo processarono e condannarono. Nessuno si è sdegnato o meravigliato perché in questi giorni è cominciato davanti alla Corte d’Assise di Bologna un nuovo processo per la strage del 1980, lo stesso anno dell’omicidio del dirigente Renato Briano e del generale Enrico Galvaligi, per cui sono condannati all’ergastolo alcuni degli odierni arrestati. Fatti scellerati, come quelli che hanno insanguinato l’Italia sul finire del secolo scorso, vanno comunque ricostruiti nella loro interezza; e, una volta ricostruiti, devono portare alle responsabilità ed alle conseguenze di legge.

Facendo rispettare i verdetti emessi dai propri giudici e il diritto di tutti (in primo luogo i parenti delle vittime) di vederli eseguiti, lo Stato afferma sé stesso, perché una giustizia incompleta e monca non consente un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni: la certezza della pena è corollario necessario del principio che la legge è uguale per tutti.

L’eventuale misericordia — detenzione domiciliare, benefici vari — potrà esercitarsi solo dopo.

Infine, e non è considerazione di poco momento, va ricordato che questi arresti segnano un importante punto di arrivo politico; sul piano giudiziario, vale a dire per condurre fisicamente i fuoriusciti nellecarceri italiane, comincia solo ora una battaglia, dall’esito tutt’altro che scontato, che promette di durare a lungo. Ma per l’immagine del nostro sistema giudiziario, troppo spesso ingabbiato in un pregiudizio che vede, in modo irragionevole quando non interessato e peloso, nell’uso dei pentiti e nelle norme speciali, utilizzate per contrastare l’offensiva eversiva (ed oggi per il contrasto al crimine mafioso), una legislazione debordante dai parametri occidentali sul rispetto dei diritti, si tratta di un importante riconoscimento della sua sicura legittimazione democratica.

L’età incerta, di Leslie Poles Hartley, inizia con una frase rimasta memorabile: “Il passato è una terra straniera; lì, tutto si svolge in modo diverso”. Non è vero. Noi siamo figli del nostro passato, che sempre ci coinvolge e ci condiziona. L’Italia di oggi è frutto anche di quella sanguinosa stagione, delle violenze e lacerazioni che ha portato con sé, come pure degli slanci di rinnovamento che ha avviato e trasmesso alle generazioni successive.

Comprendere non vuol dire dimenticare. Così, non di vendetta si tratta, ma di una necessità di certezza e di assunzione di responsabilità, senza la quale è impossibile ogni ipotesi di rieducazione e riconciliazione.

Francesco Puleio

Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania

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