C’è un elemento sullo sfondo che solo i più attenti colgono, perché siamo tutti coinvolti dall’indicibile orrore della scena: un soldato, una figura lontana, che guarda, con le mani in tasca. Perché la tragedia è diventata un’abitudine. Ma lo sguardo è attratto dal centro, da quei corpi: madre e figli falciati dai soldati russi, questa è la notizia che rimbalza, mentre cercavano di scappare. Siamo nei dintorni di Kiev. Ci sono due versioni delle foto che una coraggiosa reporter Linsey Addario, ma non solo lei, ha scattato per il New York Times. Una, quella che il giornale ha pubblicato, è senza la protezione che copre i cadaveri. L’altra è successiva, con un telo che raccoglie quella madre e i suoi figli, due bambini.
Abbiamo pubblicato la versione meno cruda (Davvero si può dire così?) per un minimo di protezione nei confronti di chi guarda, sapendo che è un dovere raccontare il confine inumano della guerra che è fatto di queste cose. Guerra la chiamiamo e lo è. Ma è soprattutto la brutale e criminale aggressione ai danni dell’Ucraina e del suo popolo inerme. L’ineffabile presidente Putin, in un colloquio con il presidente francese Macron, ha detto che il suo esercito non sta ‘prendendo di mira’ i civili. Scrive Lorenzo Cremonesi, inviato sul campo del ‘Corriere della sera’: “Ma come fa Putin a dire che i suoi soldati non sparano sui civili? Davanti a noi ieri per ore intere abbiamo verificato dal vivo la falsità della sua propaganda. Ci sono morti: una foto del New York Times riprende una mamma con i due figli uccisi da una deflagrazione, forse di mortaio, alle porte del villaggio di Irpin”.
Che gli innocenti, quelli che non combattono, i bambini, muoiano è una tragica evidenza. Ieri anche noi ci siamo soffermati sulla storia di Kirill, il bimbo di Mariupol, morto ad appena diciotto mesi, in un ospedale senza elettricità. Nessuno dimenticherà mai queste e altre ferite. Nessuno dimenticherà mai una madre che corre, un padre che vola e regge tra le mani un fagottino sporco di sangue. Suo figlio.