Palermo è (anche) la città della ‘morte vissuta’. In pochi altri crocevia l’esistenza e la sua fine, il chiarore e il buio, l’inizio e il suo compimento convivono in una penombra così intrecciata.
La precarietà costituente di cui siamo raffinati esegeti trova la sua strada in un rimbalzo continuo, con una speciale enfasi. Come se il due novembre fosse il calco caratteristico di un destino già attuale. Qualcosa che sentiamo addosso.
Ogni palermitano sa di cosa si parla, in fondo, nella propria percezione contraddittoria. Conosciamo, da oppositori di noi stessi, ‘il girasole impazzito di luce’ e un profilo di memorie catacombali.
La nostra festa dei morti
Palermo, sebbene non ne abbia l’esclusiva, ‘vive la festa dei morti’, all’insegna di un rapporto materiale, non meramente simbolico. Si avverte da subito, nell’aria di una cultura. Da bambini, invano, abbiamo origliato dietro porte illuminate per cercare i nonni trapassati, mentre disseminavano i regali prescritti.
Mutando completamente scenario e cornice. Da giovani – vale per la generazione di chi scrive e non solo – abbiamo sperimentato la morte vissuta delle grandi figure dell’antimafia. Le stragi del ’92 sono state uno choc distillato in più riprese, nell’abbattimento di un confine.
Nessuno, per quanto valoroso e giusto – soprattutto perché valoroso e giusto – poteva sentirsi al sicuro. Da quella grande paura è nato un immenso coraggio di rivolta, sedimentato nella memoria.
La morte vissuta di Palermo
Oggi, tradizione, psiche e martiri a parte, la ‘morte vissuta’ da una fetta della città, il contesto specchiato in questo 2 novembre, assume rifrazioni inquietanti. Annuncia giorni difficili. Si presenta con le sembianze di una nuova pestilenza da scongiurare, anch’essa collaudata quotidianamente, dentro la bolla di un’apatia civile non estemporanea.
La morte vissuta di Palermo ha il volto dell’indifferenza. Ci siamo indignati, oltre il dolore, per l’uccisione del povero Paolo Taormina (un abbraccio perenne alla sua famiglia). Ma l’unico interesse reale, oltre una simile tragedia, è la nostra personale sicurezza. Vogliamo uscire la sera, senza il rischio di morire ammazzati, di subire un’aggressione, di sperimentare una violenza. Sacrosanta richiesta. L’esperimento delle zone rosse incardina una prima, parziale idea, soggetta a verifica.
Tuttavia, bisognerebbe fare di più. Rigenerare il centro storico con la presenza di iniziative permanenti, occupandolo, nel segno di una trasformazione.
I Gaetano Maranzano e quelli come lui cercano, come la morte, il favore incombente delle tenebre, l’assenza dello sguardo consapevole. Aprire gli occhi sulla città nella sua interezza creerebbe esiti rinnovabili.
Lo Zen e la cattiva coscienza
La morte vissuta di Palermo ha il profilo lacerato di certi quartieri. Non vale solo per lo Zen. Fino a quando le periferie verranno considerate, da troppa cattiva coscienza, ghetti concettuali, recinti in cui, magari, ‘rinchiudere’ una porzione di palermitani, sarà complicato pretendere un’adesione convinta al patto di cittadinanza. Che può latitare perfino in via Libertà.
Ricordarlo non significa fornire alibi al crimine, all’indolenza, al collateralismo del malaffare, né giustificare ogni cosa con il mischiniamento. Chi possiede un minimo di osservazione non avrà difficoltà a riconoscerlo: la mancanza di un contatto fra le città disperse nella città ha prodotto esiti drammatici.
Le colpe della politica
La morte vissuta di Palermo è nell’abbandono del crack, nell’oscena tenacia delle piazze di spaccio. Cose notissime, per nome e cognome.
La morte vissuta di Palermo appartiene a tanta politica dal respiro corto. Accanto a taluni illuminati, con una prospettiva di bene collettivo, si muovono truppe disordinate, in cerca di duratura conferma elettorale.
Ogni evento, di conseguenza, si aggancia alla frase ad effetto, alla prospettiva solitaria, al gruzzolo di voti ferocemente difeso. Il guadagno del combattente per se stesso deve essere immediato, l’agire singolo riveste un mero valore di beneficio interno, raramente scorre all’esterno, se non come retorica.
C’è chi non sopporta di ‘vivere la morte possibile‘ di una carriera avviata, alla stregua di una putìa di consenso-sopravvivenza, e si regola. Accade verosimilmente altrove. Qui, però, la cattiva politica, equamente diffusa ovunque con il suo codice brutale, sottrae risorse necessarie alla disperazione del bisogno di crescita.
Voglia di cambiare?
Ma Palermo ha voglia cambiare? Possiamo sperarlo, convinti, per antico impegno, di trovarci davanti a un corpo in perpetua ribellione contro i suoi demoni. Altri, invece, hanno già abdicato a ogni forma di investimento morale.
Gli spiragli di conforto resistono. Nella morte vissuta di Palermo, risaltano voci coraggiose che proclamano pubblicamente i diritti della vita nella sua ampiezza. La più forte appartiene al nostro arcivescovo, Don Corrado, alle sue opere e alla sua pastorale, vibrazioni incessanti nella costruzione di un orizzonte diverso. Che poi si raggiunga davvero è la sfida di tutti.
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