PALERMO – “Graviano mi incaricò di comprare un aereo telecomandato. Mi spiegò che altri ne avevano già acquistati e che dovevamo fare le prove per trasformarli in bombe volanti caricandoli di esplosivo”. Lo ha rivelato, deponendo al processo per la strage costata la vita al giudice Borsellino, il pentito Gaspare Spatuzza. “Io lo acquistai – continua – mi costò più di un milione e qualche prova l’ho fatta. Dovevamo imparare a pilotarli e poi dirigerli verso obiettivi caricandoli di una modesta quantità di esplosivo”.
“Dal 1992 al gennaio del 1994 la famiglia mafiosa di Brancaccio, a cui io appartenevo, si è resa autore di crimini che non entrano nell’ottica sia pur perversa di Cosa nostra: alludo alle stragi di Falcone e Borsellino e agli attentati del Continente”. Poi Spatuzza racconta l’evoluzione terroristica di Cosa nostra. Al Borsellino quater sono imputati i boss Salvo Madonia, Vittorio Tutino e i falsi collaboratori di giustizia Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Spatuzza ha consentito ai pm di riscrivere la storia dell’eccidio e di smascherare il clamoroso depistaggio che ha portato alla condanna all’ergastolo di sette innocenti per i quali si aprirà il processo di revisione. Il dibattimento, in corso davanti alla corte d’assise di Caltanissetta si celebra in trasferta nell’aula bunker di Rebibbia.
”Già dal 1997 ho cominciato a dire che la storia della strage di via D’Amelio non era andata così – dice Spatuzza -. In particolare dissi qualcosa sul furto dell’auto che poi fu imbottita di tritolo. Ma non seppi più nulla dalle istituzioni. Di più non avrei potuto dire perché rischiavo la vita. In carcere- aggiunge – parlai di dissociazione con Graviano, una cosa che mi interessava avendo io intrapreso un percorso di allontanamento dalla mafia, ma lui mi disse che dai magistrati non avevamo nulla da aspettarci e che quel discorso non ci interessava. Piuttosto mi disse che se non fosse arrivato qualcosa da dove dove arrivare, allora avremmo cominciato a parlare”.
”Facemmo un incontro a Campofelice di Roccella. C’erano Giuseppe Graviano e Cosimo Lo Nigro. Dovevamo pianificare un attentato a Roma in cui dovevano morire un bel po’ di carabinieri. Io gli dissi che ci stavamo portando dietro morti che non ci appartenevano. Capaci ci apparteneva, via D’Amelio pure. Falcone e Borsellino erano nemici diretti di Cosa nostra, il resto non ci apparteneva più. Se uccido, come a Firenze, persone inermi siamo su un versante abnorme anche per il linguaggio mafioso”, dice Spatuzza. “Graviano mi rispose – aggiunge il pentito – che era bene. Così chi si doveva smuovere si sarebbe dato una smossa. Chiese se capivamo di politica e spiegò che c’era di mezzo qualcosa che se andava a buon fine ne avremmo tutti giovato a cominciare dai carcerati. Io non feci domande. In Cosa nostra non esiste che si facciano domande dirette su certi temi”.
“Facemmo tutti i preparativi per l’attentato che doveva essere devastante – racconta Spatuzza – .Scegliemmo come sede lo stadio Olimpico. Era stato fissato come data il 23 gennaio del 1994. Con Graviano ci vedemmo una settimana prima al bar Doney, a Roma. Lui era felice, mi disse che avevamo il Paese nelle mani grazie ad alcune persone serie che non erano come i socialisti che prima avevano preso i voti poi ci avevano fatto la guerra. Poi mi fece il nome di Berlusconi e del nostro compaesano Dell’Utri”. A quel punto Spatuzza ritenne che l’attentato ai carabinieri fosse sospeso e propose a Graviano di uccidere il pentito Totuccio Contorno, ma il boss di Brancaccio disse che “si doveva andare avanti perché gli si doveva dare il colpo finale”.
(Fonte ANSA)