Scrivere sulla tragedia accaduta a Lecco, scrivere sulle tre figlie uccise dalla madre, può essere semplice: la compassione ed il dolore per le vittime da sempre si prestano a facili esercizi retorici cui si accompagna un diffuso senso di impotenza in chi non riesce a trovare alcuna giustificazione nel sacrificio di chi è stato privato della vita in modo così atroce. E’ legittimo e spontaneo, infatti, investigare sulle motivazioni di un gesto così innaturale, ma altrettanto scontata è la consapevolezza che esse rimarranno ignote perché l’animo umano vive tormenti inimmaginabili per chi non è chiamato a confrontarsi con essi quotidianamente. Ben più difficile, invece, è affidare al silenzio il compito di custodire la dignità di tre vite spezzate, recise come boccioli cui è stato impedito di divenire fiori.
Il rispetto dovuto alle vittime, infatti, non può distogliere l’attenzione dall’ennesimo dramma svoltosi in quella che da più parti è stata definita come “normalità”. Espressione ormai così abusata da assumere un tono cinicamente beffardo, un contenitore dai contorni divenuti oggi talmente elastici da poter agevolmente racchiudere tutto ciò che accade sotto i nostri occhi indifferenti e, talvolta, anche colpevoli. Non può esservi normalità per chi vive schiacciato da un peso così forte da divenire insostenibile, da indurre al sacrificio più grande: privare della vita coloro ai quali essa è stata donata. Spesso sono storie di brave madri, premurose, presenti ad ogni passo importante della vita dei loro figli, da quelli più incerti a quelli via via più spediti e sicuri.
Tante, troppe persone segretamente si dibattono in una lotta disperata contro i propri demoni nel vano tentativo di allontanarli, di non cedere neppure un millimetro per non essere trascinati nell’abisso. E’ immensa la forza della loro disperazione, del tormento che come una cappa le opprime; esso, inafferrabile nel suo costante e vittorioso assedio ad una serenità sempre più vacillante si annida subdolo, indistinto, fino a divenire l’unico compagno di vita. Nulla è più come prima: non c’è più luce intorno a sé, i colori diventano cupi, la percezione viene deformata, filtrata da una sensibilità ormai corrotta e resa più acuta dal dolore e dalla consapevolezza di riscoprirsi vittime di un panico mai conosciuto in precedenza, del respiro che si affanna e di una morsa che stringe il cuore. Sentire più di quanto si è disposti a sopportare, più di quanto gli altri possano mai immaginare; circondati dagli amici, dalla propria famiglia eppure invisibili, isolati, non soltanto soli.
Ogni silenziosa invocazione di aiuto spesso resta inascoltata e non rimane che rifugiarsi nel buio della rassegnazione, incapaci di sopportare l’indifferenza o l’impotenza altrui cui, inevitabilmente, segue l’abbandono alla propria battaglia solitaria nell’illusione salvifica che questo renda più forti. Il destino è già segnato, non resta che rifugiarsi nella forza della disperazione per rimanere aggrappati all’ultimo spuntone di una vita che sfugge dalle mani, che non si sente più propria, in cui non c’è più spazio per i sogni né per la speranza. Essere protagonisti ed allo stesso tempo spettatori del proprio dramma rende lucida la consapevolezza di quanto siano vani gli eroici sforzi di sconfiggere quei demoni che inspiegabilmente, beffardamente, scelgono le proprie vittime tra tante, trasformando la loro vita in un inferno in terra. La resa e la sconfitta attraversano il tempo, lo rallentano e rendono la visione del proprio dramma sempre più vivida: Non resta che combattere sino alla fine, un attimo dopo l’altro, mentre la lacrime impediscono di vedere ma non di sentire e l’oblio è negato in un presente cui è negato il futuro.
L’apparente normalità in cui agli occhi degli altri avviene tutto ciò ne dimostra la forza dei protagonisti; la solitudine che ha accompagnato questa lotta è il prezzo da pagare al coraggio ed alla dignità che, forse, hanno soltanto offerto una maschera ad una stoica fragilità. Fino al gesto più più atroce, il sacrificio estremo che si fonde con il crudele atto di folle amore e distruzione per l’incapacità di abbandonare le persone cui si è donata la vita nel tentativo di metterli in salvo perché immaginarne il distacco è un dolore che annichilisce.