“Hanno detto che noi giovani il lavoro dobbiamo inventarlo. È una bella cosa, per carità, ma devi avere una base economica da cui partire. Altrimenti, la sera cosa mangi?” A parlare è Stefania, una ragazza di 29 anni, palermitana. Una come tante. Ma con un pregio: ha trasformato la sua precarietà in una scuola per imparare a vivere. Ogni esperienza, una lezione. Un percorso universitario lasciato a metà. Qualcosa come oltre trenta lavoretti tra telemarketing, operatrice call center, baby sitter, agente monomandataria, venditrice porta a porta, dog sitter, e cameriera. Stefania è una giovane che non sa più con chi prendersela. Un padre operaio e una madre casalinga. Una famiglia semplice e onesta.
“Una volta ero iscritta a Lettere moderne. Il mio sogno era diventare insegnante. Non ho mai preso un voto inferiore al 30. Mi piaceva studiare”. Poi la disoccupazione del padre. E la carriera universitaria interrotta bruscamente. “Ho iniziato a lavorare per aiutare in casa. Lo rifarei. Quando i genitori sono in difficoltà, vanno sempre aiutati”. Stefania si allontana dall’ambiente universitario, perde i contatti con i colleghi, e pure l’entusiasmo. Lei non è una bambocciona, per dirla alla Schioppa. Non è neppure una figlia viziatella, e non sta bene in casa considerando che la sua situazione familiare è grigia e nebulosa. È soltanto una ragazza che non può chiedere aiuto ai genitori, che non possiede una laurea, e che ha il portafoglio perennemente vuoto. Ma non molla. Lei resiste. Incassa i colpi, improvvisa competenze e mestieri, si adatta e si trasforma.
Ambizioni? “Vivere con dignità”. Ragazza solare, sorridente, ma con tanta stanchezza accumulata e nessuna comodità. “Niente paghetta mensile – dice – mai avuta”. Stefania ha indossato tante divise. Hostess, promoter, baby sitter, operatrice telefonica, insegnante di doposcuola, animatrice, dog sitter. “Ho sempre improvvisato. E ho accumulato pessime figure. Una volta ho fatto anche la venditrice di aspirapolvere. Mi hanno detto che dovevo essere spietata. Dovevo terrorizzare la gente con la storia degli acari”. Poi, finalmente, la svolta: consulente per un’azienda. Retribuzione: 300 euro. Compito: procacciare clienti. “Ma se non chiudevo almeno sei contratti in un mese, ero fuori ”.
Un mese vissuto in un clima di paura, attaccata con le unghie e con i denti a un lavoro pagato con retribuzione da fame, e alla fine scaricata come uno straccio vecchio. Motivazione? “Non avevo raggiunto il target”. Quelli come Stefania vengono definiti giovani senza pretese. “È vero. La sera sono così stanca che l’unica pretesa che ho è quella di andare a dormire. Al risveglio, la domanda che mi faccio non è che lavoro posso crearmi, ma quanti soldi mi servono alla settimana per riuscire a cavarmela”. I momenti più tristi sono i colloqui di lavoro. “Ti ritrovi a dover competere con padri di famiglia disperati. Penso a mio padre e ai genitori che non possono aiutare i figli perché a cinquant’anni devono improvvisare un mestiere. È una cosa brutta”.
Ma tu ti senti una giovane senza speranza? Stefania ci pensa un po’. “Tra un po’ smetterò di essere una giovane, ma io spero sempre. Resisto. E non me ne vado da qui. Questa è la mia città. Non lascio il posto ai raccomandati. Continuerò a intasare le caselle di posta delle aziende. La crisi passerà e dovranno inventarsi un’altra scusa per non prendermi. Non sopporto quelli che io chiamo i professionisti della destabilizzazione psicologica. Sono quelli che ti dicono che stai perdendo tempo, che è meglio che te ne vai. Ma non è semplice fare bagagli e partire. Soprattutto se hai soltanto 20 euro nel portafoglio”.
Stefania vive il presente. “È una lezione importante. Ho imparato che quando la pentola è vuota, la creatività va a farsi benedire, ma apprezzo ogni attimo della mia vita. Di chi è la colpa? Non ne ho idea. Se l’obiettivo è renderci deboli, si sbagliano”. Usa una metafora: “È come stare su un ring – dice – ci sono quelli che cadono. E poi ci sono quelli che incassano la maggior parte dei colpi, anche i più pesanti, e restano in piedi. Quando penso ai giovani e ai padri di famiglia che si suicidano perché non trovano lavoro, mi dico che bisogna resistere anche per loro, per la memoria di chi è caduto, perché questa è una battaglia. Bisogna darsi da fare. Arrangiarsi e prendere tutto quello che viene, trasformando ogni esperienza in una lezione per diventare più forti. Io, ad esempio, non dico mai che mi hanno distrutto il presente”, conclude. “Io dico sempre: hanno creato una grande guerriera e non ne hanno la più pallida idea”.