PALERMO – Se quelle mura, le mura del Monte di pietà, potessero parlare. Se quegli oggetti impegnati potessero raccontare la storia che custodiscono il vero volto di Cosa nostra si svelerebbe in tutto il suo disonore. Le microspie e i racconti dei pentiti servono anche a questo. Laddove la miseria caratterizza la quotidianità, lì sguazza la mafia.
Le ultime dichiarazioni in ordine di tempo sono quelle di Vito Galatolo, raccolte alcuni gironi fa dal pubblico ministero Amelia Luise, “Raffaele Favaloro si inseriva al Monte di Pietà grazie al mio appoggio. Nascevano le invidie di Pietro Pipitone, chello chello, che lo voleva fare uccidere. In cambio di tale mio benestare Favaloro acquistava le polizze scadute e le rivendeva”.
Come funziona? Si ottiene denaro in cambio di un oggetto prezioso (gioielli, orologi, argenteria) con la possibilità di riscattarlo dopo un periodo stabilito pagando degli interessi. Spesso la gente non riesce a pagare. A quel punto entrerebbero in gioco i mafiosi.
C’è il Monte di pietà e c’è anche il Monte dei pegni. Cambia il nome, ma non il meccanismo, ricostruito dai finanzieri della Polizia valutaria intercettando Favaloro: “… io mi sono andato ad impegnare l’orologio… ma non per bisogno… io li impegno… lo sai per che cosa?… per regolarizzarli. Ora questo orologio qua io lo faccio arrivare all’asta… perché io ho un’amicizia… cose… arriva all’asta… ed io me lo compro all’asta… hai capito… poi lo vendono loro… l’ho comprato al Monte di Pietà…”. L’orologio in questione, un Rolex Daytona, faceva parte del bottino strappato a una donna. Un banda di finti finanzieri le aveva fatto credere di essere finita sotto inchiesta esibendo un atto giudiziario taroccato e, una volta entrati in casa, avevano ripulito la cassaforte.
Allora si trattò di un prezioso orologio – il lusso di certo non giustifica il gesto – altre volte sono gli oggetti accumulati negli anni dalla povera gente perché, come ha raccontato Monica Vitale, collaboratrice di giustizia del Borgo Vecchio, le persone impegnano di tutto. Anche lei comprava “sotto costo” le polizze per poi riscattarle. La disperazione altrui era la sua fortuna: “Al Monte dei pegni guadagnavo anche mille e cinquecento euro al giorno”.
In un modo e nell’altro la mafia ha sempre rubato l’oro della povera gente. Lo fa con piccole operazioni o in grande stile. Autunno 1991. Un’Alfa 164 di colore bianco parcheggia davanti a una gioielleria di Castelvetrano. Al volante c’è Matteo Messina Denaro. Comodamente seduti dietro ci sono Totò Riina e consorte. Prendono un borsone e lo consegnano al gioielliere Francesco Geraci, che cinque anni dopo deciderà di pentirsi. Sul piatto degli investigatori, per certificare la sua attendibilità, il pentito mise il tesoro del padrino corleonese. Sotto sequestro finirono gioielli, preziosi e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. I lingotti erano una parte del colpo al Monte dei pegni della Sicilcassa in via Calvi a Palermo. Parlare di rapina sarebbe riduttivo. Pochi mesi prima, in agosto, sette banditi sbucarono dai bagni. Gli impiegati erano appena rientrati dalla pausa pranzo. Dal caveau di via Calvi sparì merce per 18 miliardi di lire. A parte i lingotti di Riina la refurtiva non è più stata ritrovata.