L’anniversario dei vent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia è stato ricordato a metà novembre anche dalla azzeccata ristampa del suo libro centrato sull’impostura, tema caro allo scrittore di Racalmuto e forse cifra di tutta la sua verve polemica contro inganni e apparenze.
Nel Consiglio d’Egitto campeggia l’abate Vella con l’ermetico codice in lingua simil-arabo che può essere interpretato solo da chi finge di conoscerne segni e geroglifici, così costruendo le basi di una colossale impostura orchestrata per tenere in pugno i creduloni, siano potenti o senza niente. E sembra davvero che si moltiplichino in questi tempi gli abate Vella del nostro mondo politico in subbuglio fra ribelli e cosiddetti lealisti, governativi e oppositori, confusi dentro e fuori la maggioranza ufficiale e quella di volta in volta pronta a comporsi secondo criteri spesso indecifrabili.
Pur convinto delle sue grandi capacità di intuizione, mi viene da pensare che forse lo stesso Sciascia si sarebbe perduto davanti ai continui sismi della vita politica. O forse, aggrappandosi ad una saggezza antica, avrebbe tirato fuori la stessa frase pronunciata in un assolato pomeriggio, nella sua casa di campagna, in contrada Noce, durante una competizione elettorale a metà degli anni Ottanta, quando Bettino Craxi lo andò a trovare fra un comizio a Caltanissetta e un altro ad Agrigento. Per chiedergli davanti al caminetto di quella casa a sei chilometri da Racalmuto come vedesse la politica di allora e le lotte fra i big politici del tempo, fra socialisti e democristiani.
Fu allora che Sciascia sintetizzò tutto con una frase lapidaria, spiegando che ogni movimento di potere sembrava rispondere ad un solo assunto, alla logica del “levati tu che mi ci metto io”. Forse per questo egli stesso s’era già “levato”, allontanandosi da una vita politica che lo aveva visto fra i banchi della Sinistra al Comune di Palermo con Renato Guttuso e in Parlamento con i radicali. è di questa disaffezione, di un certo crescente generale scetticismo, di questa distanza prodotta dal perseguimento di interessi particolari e personali, quasi mai coincidenti con quelli generali, che la classe dirigente dovrebbe tener conto. Perché, pur essendo certo ognuno dei torti altrui, i contendenti non riusciranno così a convincere delle loro ragioni né gli avversari né gli elettori, solo limitandosi ad alimentare i propri gruppi di tifosi. Come allo stadio dove alle curve un rigore va bene solo se assegnato alla propria squadra e l’arbitro è sempre un figlio di buona madre se non fischia contro l’altra.
La politica è ridotta a stadio con capi claque che tuonano frenando il cambiamento o sputandosi addosso invettive come disonesti e dilettanti, parlando di indegni parlamentari, avviando scissioni di maggioranze e opposizioni dilaniate da accuse reciproche di cuffarismo o lombardismo, neologismi
lanciati come epiteti spregevoli. Né Lombardo e Micciché, né Cascio e Castiglione, né la Prestigiacomo con Granata da una parte nè Schifani o Alfano con Nania dall’altra, finiscono per offrire uno spettacolo decoroso, proprio perché la sensazione finale, al di là delle ragioni e dei torti reali, resta quella della lotta di potere, dello sciasciano “levati tu che mi ci metto io”.
Formula magicamente contagiata nel mese di novembre all’interno dell’opposizione con lo scontro fra Lupo e Mattarella da una parte, Lumia e Cracolici dall’altra, giusto per limitarci a citare i colonnelli di uno scontro ampio e devastante all’interno di un Pd in Sicilia più diviso rispetto ad ogni altra realtà locale. Quello che non si capisce nelle curve di questo stadio della politica è che, oltre gli spalti, nella società monta una profonda disaffezione per questo mondo incapace di dare risposte, fermandosi alle promesse e allo sventolare di programmi cartacei rivelatisi solo codici da abate Vella.
Per accendere le luci a Catania, per salvare dalla monnezza Palermo, per tamponare le falle di partecipate, Ato, aziende ed enti pubblici trasformati in riserva privata e fonti di arricchimenti personali, si continua col vecchio andazzo dell’assalto alla diligenza, si tratti di trasferimenti di denaro pubblico omaggiato dal Cavaliere o dal presidente di turno, ovvero della distribuzione di fondi comunitari secondo liste in cui privilegiare i propri amici. Potranno mai il Mezzogiorno e la Sicilia ritrovare se stessi quando queste lotte producono solo un colpevole immobilismo specchiato per esempio nell’incapacità di scelta su discariche, termovalorizzatori, raccolta differenziata e così via optando, purché si decida e si faccia qualcosa di concreto e immediato?
Quesito legato all’urgenza di garantire un minimo di vita civile ad una terra che non ne può più di sostituire un manager con un altro, accendendo speranze subito soffocate, alternando com’è capitato la Paolocci con Bob Leonardi per poi vederlo volare via senza nulla aver concluso, magari mentre passa da Palermo Attalì con tutti che ascoltano e prendono appunti, come succede quando spuntano Rifkin o altri economisti d’eccellenza protagonisti di convegni a perdere, tutti pronti a sfoderare ricette risolutive senza che poi qui resti nulla. Se non caricature di codici e “abati” che non lasceranno segno di se stessi, macerie a parte.