La dirigente: "Interrogatemi, i dati Covid non sono falsi" - Live Sicilia

La dirigente: “Interrogatemi, i dati Covid non sono falsi”

L'inchiesta trasmessa da Trapani a Palermo. La tesi difensiva di Di Liberti: difficoltà organizzate, nulla di più

PALERMO – Nelle prossime ore chiederà di essere interrogata dai pubblici ministeri di Palermo a cui è passata, da Trapani, l’inchiesta sui dai Covid.

Maria Letizia Di Liberti, dirigente generale del “Dipartimento attività sanitarie e osservatorio epidemiologico” della Regione siciliana (lì dove è nato il caos dei numeri), ai domiciliari dal 30 marzo scorso, spiegherà che non sono stati nascosti morti e contagi con chissà quale intento.

Anzi, i dati sono stati recuperati per un’operazione trasparenza, con l’obiettivo di rispondere ad una collettiva esigenza di verità. Dati la cui raccolta è stata sin dal primo momento complicata e caotica, questo è innegabile, ma la colpa non sarebbe del dipartimento che Di Liberti ha diretto fino all’esplosione dello scandalo. Al momento, infatti, è stata sospesa.

Dopo che il giudice per le indagini di Trapani ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare in via d’urgenza e si è dichiarato incompetente, il fascicolo è passato ai pm di Palermo che stanno studiando gli atti per valutare la nuova richiesta da avanzare al gip di Palermo.

Ci sono tante posizioni da approfondire, non solo quella delle tre persone finite ai domiciliari. Indagato è anche l’assessore Ruggero Razza. Il suo legale, l’avvocato Enrico Trantino a Livesicilia ha spiegato “perché Razza è innocente”.

Di Liberti non smentirà ciò che emerge dalle intercettazioni, poiché nulla ci sarebbe da smentire smentire, piuttosto proverà a chiarire. È la prospettiva accusatoria che i suoi legali, gli avvocati Fabrizio Biondo e Paolo Starvaggi, proveranno ad azzerare.

Il flusso dei dati non era giornaliero, c’erano difficoltà a riceverli dalle strutture sanitarie e dagli ospedali. Il sistema di raccolta non ha funzionato, non ha retto l’impatto che chiedeva maggiore efficienza, ma ciò non ha avuto conseguenze sulle politiche sanitarie adottate.

È vero, c’erano vittime e contagiati dal Covid da recuperare nella statistica. È successo perché le strutture sanitarie comunicavano i dati aggregati di più giorni. E allora si decideva di spalmarli perché altrimenti, comunicandoli tutti insieme, avrebbe significato, questa volta sì, falsare la realtà.

La versione della difesa è che i dati oggetto dell’inchiesta in ogni caso servivano solo ed esclusivamente per il bollettino giornaliero diramato a livello nazionale dalla Protezione Civile, ma non è su questi numeri che si basava e si basa la scelta del governo nazionale di assegnare alla Sicilia una colorazione – gialla, arancione o rossa – a seconda della gravità della diffusione del virus.

La scelta, che spetta all’Istituto superiore di sanità, dipende da parametri più complessi (non solo contagi, decessi e ricoveri) che vengono direttamente caricati dalle strutture sanitarie sulle piattaforme informatiche.

E allora se errori sono stati commessi sono frutto della farraginosità del sistema, ma non avrebbero inciso sulle scelte e sulla vita delle persone. Da qui la tesi difensiva secondo cui, non c’è falso perché la trasmissione dei dati non ha orientato le scelte del governo nazionale. E se non le ha condizionate verrebbe meno il movente: e cioè il proposito di apparire una Regione efficiente, dal punto di vista amministrativo e politico.

Se davvero avessero voluto nascondere la verità non avrebbe avuto alcun senso rendere noti i dati, spalmarli su più giorni e senza criterio.
Sarebbe stato proprio il dipartimento a scoprire che rispetto alle statistiche inviate al ministero, ma non all’Istituto superiore di sanità, c’erano meno positivi e più morti. I dati sono emersi quando la Regione ha chiesto i numeri dei positivi che risultavano in isolamento domiciliare. Si è scoperto che molte vittime non erano state censite.


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