L'equazione impossibile: meno lettori e più scrittori - Live Sicilia

L’equazione impossibile: meno lettori e più scrittori

Il problema non è coltivare la scrittura, ma il desiderio spasmodico di pubblicare.
ROSAMARIA'S VERSION
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In qualsiasi epoca un genio è un genio, seppur privo di Internet. Nella pagina dello Zibaldone datata 2 aprile1827, Giacomo Leopardi commentava la velocità con la quale i libri venivano scritti, diffusi e dimenticati. Nella generale decadenza dei buoni studi, le pubblicazioni aumentavano: “Se mai fu chimerica la speranza dell’immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno”, la cui sorte “è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni”.

Questa considerazione sulla crisi della letteratura è di stringente attualità. Per noi passeggeri sulla terra, sebbene sia lecito coltivarne la chimerica speranza, è difficile ottenere fama immortale con lo scrivere. Se poi si consideri quanto siano abbondanti, sovrapponibili e superabili le “produzioni artistiche” realizzate e veicolate attraverso la rete, che meritano un approfondimento a parte, appare un inutile tentativo, esperito più per autogratificazione che non con intenti ragionati.

Il Covid-19, come effetto collaterale per il quale non v’è vaccino che tenga, ha regalato al mondo una iperproduzione di manoscritti, peraltro non più “scritti a mano”, nonostante il lemma identificativo. Forse, se si fosse obbligati a penna e calamaio, come ai tempi dell’immortale poeta di Recanati, tante elegie sul nulla non verrebbero mai partorite.

In un mondo che legge sempre di meno, specie la carta stampata, scrivono tutti. Ma proprio tutti. Sul sito web di alcune case editrici, è apparso l’avviso “A causa della grande quantità di materiale da valutare la ricezione dei manoscritti è sospesa”. Secondo il report ISTAT “Produzione e lettura di libri in Italia”, del febbraio scorso, nel 2019 sono stati pubblicati in media 237 libri al giorno, per una cifra pari a 86.475 titoli. Due terzi sono novità (58,4%) e nuove edizioni (8,5%), a fronte del 33,1% di ristampe. I micro e i piccoli editori hanno rispettivamente pubblicato 8 e 43 titoli all’anno, i medi 208, le grandi case editrici 771. Ovviamente, non pubblicano che una bassissima percentuale di quanto viene loro proposto.

Lo stesso accade nella patria di Proust. I francesi, ça va sans dire, sono un popolo di scrittori, o aspiranti tali: ed è di questi giorni la notizia che gli editori transalpiniserrano loro le porte.

La storica Gallimard, dotata di uno dei cataloghi più ricchi al mondo, con 17mila titoli e 7mila autori, è stata costretta a pubblicare, nella sezione “contatti” del sito, un avviso illuminante:“Comptetenudes circonstances exceptionnelles, nous vous demandons de surseoir à l’envoi des manuscrits. Prenez soin de vous toujours et bonnes lectures”; sarebbe a dire, senza giri di parole, che “considerate le circostanze eccezionali si chiede di soprassedere all’invio di manoscritti. Abbiate cura di voi e buone letture”. Ritradotto in soldoni, anziché scrivere, per favore, leggete!

Il picco di produzione letteraria è legato al lockdown: l’onda della noia provocata dall’inattività ha scatenato un maremoto. Non è la più grave tra le conseguenze del Covid-19, ma le case editrici sono sommerse dal profluvio di parole prodotte dall’isolamento. Gallimard ha avvisato con stile; però, per meglio ribadire il concetto, lo ha postato su Twitter scatenando commenti rissosi. Ripresa da France Press, la notizia del gran rifiuto è stata diffusa dai giornali, e al di là delle polemiche, si è risaputo che mole di proposte gli editori ricevono quotidianamente. Qualche dato? Gallimard informa che, in tempi normali, giungono in redazione trenta manoscritti al giorno, mentre con la pandemia i testi degli esordienti sono diventati una cinquantina. Lo stesso per la Olivier: 700 manoscritti in tre mesi, il che significa una previsione di 2.000 arrivi in un anno, contro i 1.200 di un’annata normale. La Grasset conferma di aver ricevuto un migliaio di testi dall’inizio dell’anno; secondo la portavoce di Le Seuil, Laure Bellouvre, il confinamento da coronavirus ha prodotto un aumento di inediti di tale portata che tra gennaio e marzo 2021 ne sono arrivati 1200. Peccato che, secondo Bellouvre, “ora che tutti si servono di un computer per scrivere, leggiamo testi mandati da persone che evidentemente non leggono”.

Questo, purtroppo, è il “paradosso dello scrittore”: se la pandemia ha fatto lievitare il numero di opere prodotte, i lettori sono diminuiti, e il Centre National du Livre rivela che nel 2021 si è registrato un calo soprattutto nella fascia d’età tra i 15 e i 34 anni.

La questione risiede nella qualità, più che nella quantità, delle opere da stampare, perché, ricordiamolo, qualunque editore è felice di imbattersi in una scoperta sensazionale: proprio Gallimard il primo aprile ha pubblicato un inedito di Marcel Proust, Lessoixante-quinzefeuillets Et autresmanuscritsinédits.

Le “settantacinque pagine”, scritte nel 1908, nel periodo in cui Proust iniziò Alla ricerca del tempo perduto, facevano parte degli archivi dell’editore Bernard de Fallois, morto nel 2018, ereditati dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Per tutti quelli che hanno deciso di mordere, o di assaporare nuovamente, la madeleine, e leggere le 4.000 e più pagine della Recherche durante l’isolamento, cosa sarà mai un libretto in più? Un regalo; e questo “ritrovamento del tempo perduto” è avvenuto proprio grazie al Covid. Secondo The Guardian, difatti, la clausura ha indotto i lettori più acculturati a mettere in lista, per scoprirlo o per rileggerlo, il monumentale classico, il che ha spintogli esegeti dell’opera proustiana a nuove esplorazioni. Nessun autore è più appropriato al momento attuale del santo patrono della letteratura dell’introspezione, che lavorava chiuso nella sua camera, scrivendo, come racconta Diana Fuss,da una posizione semi-sdraiata, “usando le sue ginocchia come scrivania”. Durante il lockdownquesto modus operandi sarà diventato familiare a milioni di persone, anche se, ahinoi, senza un risultato finale altrettanto significativo.Se ci sono più persone che scrivono rispetto a quanti leggono, è normale che le scuole per scrittori prolifichino. Va da sé che frequentare una scuola non significhi forare la crisalide della banalità e librarsi nell’Empireo dantesco verso la luce della gloria.

Giuseppe Pontiggia, che nel 1985 inaugurò la prima scuola di scrittura in Italia, asseriva: “Non ho mai conosciuto nessuno che sia nato scrittore”. Le sue “lezioni di scrittura” sono state ripubblicate con l’ironico titolo Se volete scrivere bene imparate a nuotare. La tesi di fondo è che, come ricorda Marcello Veneziani, la pura spontaneità, nello scrivere, fa affondare: per emergere occorrono tecnica e forma. “La pandemia ha accresciuto il legame con la tastiera. Aumentano gli utenti social, chiudono edicole, librerie, oltre che cinema e teatro (non solo per il covid). È una rivoluzione copernicana senza precedenti. Ma è un progresso, un regresso, o che? ”Veneziani si chiede se abbiano senso i corsi di scrittura; sebbene sia possibile educare a scrivere, diventare scrittori è tutt’altra cosa. Prima di scrivere bisogna “leggere, leggere, leggere. E studiare, educare alla lettura, accettare le correzioni, presuppone una virtù necessaria, almeno quanto l’ambizione di grandezza: l’umiltà”. Scrivere senza leggere celebra il trionfo dell’egocentrismo narcisista.

Il problema non è coltivare la scrittura, ma il desiderio spasmodico di pubblicare, commenta Grazia Verasani in un post su Facebook del 18 aprile; tutti hanno diritto all’“introspezione diaristica” che spinge a scrivere, certi che i propri scritti valgano una diffusione, ma non si può pensare di aver sempre ragione. “Siamo opinionisti, tuttologi, pensierologi, scrittori, filosofi spiccioli, tecnici, professori, e io mi chiedo”, prosegue la scrittrice, “quando è nata questa illusione cancerogena di crederci sempre dalla parte giusta, depositari della verità, specialisti della qualunque, pronti a entrare nella competizione, a dire la nostra. In questa confusione di ruoli non si salva più nessuno, la supponenza di affermare è più forte della dignità del dubbio o del riserbo”. Anche Verasani ritiene che “mai come in questa epoca l’umiltà sia totalmente assente, o addirittura derisa. Non riusciamo più a riconoscere i nostri limiti …Come se il meglio di noi, l’obiettività, l’ammissione delle nostre incapacità o debolezze, facesse parte di una cultura obsoleta e controproducente”.

Scrivere è liberatorio: pretendere che ogni scritto sia letteratura, che ogni sfogo sia poesia, è aberrante. Ancora una volta, è in campo l’eterno dualismo tra essere e apparire. Essere intellettuali, prediligere l’esercizio mentale, esercitare l’arte scrittoria, non può equivalere a nominarci onniscienti critici di noi stessi. Scrivere è magnifico: alleggerisce il disagio del tempo, mantiene una funzione catartica, traccia un sentiero che dal malessere porta verso la cura. Ci rende sicuramente migliori. Moderare le aspettative, rapportare i desideri alla realtà fattuale e ammantarsi della “dignità del dubbio e del riserbo” non significa rinunciare ai sogni; ma restare, consapevoli, aperti alla sfida.

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