No, quel giorno la città non c’era. Non c’è mai stata in occasioni gravi come quella di quel 23 maggio. E non c’era pure il 19 luglio. E nemmeno per gli omicidi cosiddetti eccellenti della città: Fava, Famá, Lizzio, Bodenza, i primi che mi vengono in mente. Non c’è mai stata, Catania, a urlare la propria indignazione. Certo, ci sono stati cittadini, singoli esponenti di partiti (e nemmeno tutti i partiti), singoli esponenti sindacali (e non tutti i sindacati); ci sono state le personalità istituzionali (e ci mancherebbe). Ma non Catania, che queste cose le ha sempre viste dal chiuso delle proprie case. Chi si è indignato, a Catania lo ha sempre fatto nella comfort zone del proprio appartamento. I catanesi, esibizionisti per antonomasia, non sono mai stati capaci di esibire indignazione, rifiuto della violenza, messa all’indice di ogni forma di sopraffazione. È prevalsa sempre l’antica logica del “calati juncu”.
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Il quieto vivere, in una città dominata da logiche personali, di favori fatti e ricevuti, di prebende per i furbi o i sottomessi, è la cifra stilistica prevalente. Io li ricordo quei giorni. E lo choc per ciò che accadeva a Palermo era solo per intensità emotiva e civica superiore a quello per quanto a Catania non accadeva, e non è mai accaduto.
Eppure questa città, quando vuole, in piazza sa scendere. Ma lo fa solo per fare festa (le promozioni del Catania sono lì a dimostrarlo), non lo fa mai per mostrare solidarietà, dolore, empatia. Quella è roba che non ci riguarda. D’altronde, per quanti decenni è stata sposata la tesi, giornalistica e anche giudiziaria, che “a Catania la mafia non esiste ma c’è solo criminalità”? Era una tesi comoda, per tanti, forse per tutti. E per i morti ammazzati a centinaia degli anni ‘80 e ‘90 era un continuo ripetersi “tanto si ammazzano tra di loro”.
No, Catania non ha mai saputo-voluto reagire ai morti di mafia. Né a quelli “tra di loro” né a quelli di coloro che in questa città si sono battuti per denunciare, per dire come stavano (e in molti casi stanno) le cose, o anche solo per aver fatto il ripropone dovere di cittadino della Repubblica. Ha ingurgitato di tutto o, nel migliore dei casi, si è lasciata scivolare di dosso di tutto. Si è sempre detto: a differenza di Palermo, Catania non ha avuto tanti omicidi eccellenti. E dunque? Occorreva una strage di Capaci sotto casa per cominciare a capire che non è “affar loro”? Non ho mai condiviso questa analisi, molto assolutoria e poco ragionevole. Comoda forse, ma che fa a pugni con la realtà di una città da sempre impegnata a farsi gli affari propri. Che significa risolversi i propri problemi quotidiani con una telefonata all’amico o con una visita nella segreteria di qualche politico. E se questo è il modus vivendi, poi non si può andare in piazza a dire che la mafia fa schifo. Perché i comportamenti giornalieri, anche i meno gravi, contraddicono quella necessità di scendere in piazza. Pure se hanno ammazzato Falcone, Borsellino, Morvillo, e otto agenti di scorta. No, Catania non reagisce mai.
Come non indignarsi, di fronte a casi recenti come i tre “messaggi” lasciati ai ragazzi di Librino dei Briganti, e ai “loro” ragazzini che tolgono ogni giorno dalla strada? E invece nulla. Una cosa avrebbe dovuto fare l’amministrazione comunale in risposta: ristrutturare immediatamente il campo di rugby San Teodoro; i lavori sono ancora in corso, dopo anni. E l’amministrazione, stando ai capi dei Briganti, si è perfino dimenticata di esprimere una solidarietà anche solo a parole, di quella pelosa e inutile che finisce sui giornali, a questi ragazzi.
Questa è la città, nel 1992 come oggi. Meglio qualche discorso da salotto, senza esporsi però, o qualche trama alle spalle della gente perbene. Altro che scendere in piazza. Palermo ogni anno c’è. Catania no. E, da catanese, fa male doverlo constatare anno dopo anno.