L’onda d’urto della pandemia ha investito tutti i settori della sanità, e i danni non appaiono recuperabili nel breve periodo. Un report predittivo dell’Università di Birmingham, Elective surgery cancellations due to the COVID-19 pandemic, pubblicato lo scorso anno dal “British Journal of Surgery”, preannunciava già che un gran numero di interventi chirurgici, oltre 28 milioni, sarebbe stato rinviato o annullato in tutto il mondo. Si stimava che, in 190 Paesi, sarebbero state cancellate o posticipate, durante le 12 settimane di picco pandemico, ben 2.367.050 operazioni a settimana, per un totale di 28.404.603 interventi, dei quali, a livello globale, il 37,7 per cento avrebbe riguardato operazioni di cancro, quindi decisamente necessarie ed urgenti. Anche se in seguito i Paesi presi in esame avessero ripristinato la routine operatoria, pur aumentando il normale volume chirurgico del 20% ci sarebbero volute 45 settimane, ovvero circa dieci mesi, per smaltire gli arretrati. A distanza di un anno, i dati confermano che i ricoveri ospedalieri sono drasticamente calati, come pure il numero di diagnosi di malattie gravi.
La ricerca degli scienziati inglesi aveva l’obiettivo di costituire preventivamente uno schema per i governi, affinché predisponessero gli strumenti organizzativi atti a mitigare la pesante ricaduta dei ritardi causati dall’epidemia sui pazienti, sviluppando piani di recupero e implementando strategie per ripristinare l’attività chirurgica in modo sicuro. L’analisi, rispetto a quello che stava accadendo ovunque nel mondo, tendeva a dimostrare, specialmente riguardo alla chirurgia elettiva, che gli “effetti collaterali” della pandemia necessitavano una rapida azione per riprogrammare in sicurezza i servizi e adattare al nuovo contesto la gestione dei sistemi sanitari. I propositi erano lodevoli, ma, come si sa, l’inferno è lastricato di buone intenzioni.
Le scorribande esiziali del virus, nei fatti, hanno interrotto i servizi ospedalieri di routine ovunque. Dall’inizio del 2020, i ricoveri sono diminuiti vertiginosamente. In Italia, un’analisi condotta dal MES del Sant’Anna di Pisa ha evidenziato un calo notevole di interventi, in particolare di quelli per i tumori al seno, colon, prostata, polmone, retto, utero, melanoma, tiroide, e di quelli riguardanti le malattie cardiovascolari. Con riferimento ai volumi di prestazioni sanitarie di dieci regioni (Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto) e delle due province autonome di Trento e Bolzano, sono stati messi a confronto i dati del 2020 con quelli del 2019, e si è riscontrato, in particolare, il calo del 14% degli interventi chirurgici per tumore alla mammella (classe di priorità A), una diminuzione del 24% per i ricoveri per bypass aortocoronarico, la riduzione del 16.7% in tutte le regioni degli interventi di angioplastica e degli interventi chirurgici per tumore al polmone (anch’esso classe di priorità A) in media del 19%.
Il calo dei ricoveri e degli interventi programmati è stato in gran parte dovuto al fatto che gli ospedali hanno intenzionalmente ridotto la chirurgia non urgente e gli altri trattamenti medici non critici, a causa del sovraccarico di pazienti Covid, ma gli effetti collaterali delle posticipazioni si sono presto manifestati. A causa dell’impossibilità di ricevere cure, le condizioni mediche dei pazienti di altre patologie sono peggiorate. Inoltre, le diagnosi di malattie gravi, talora scoperte solo in sala operatoria, sono diminuite in modo significativo e spesso letale.
L’accesso alle competenze chirurgiche risulta pertanto la grande area colpita dal Covid-19. E, come risultato della seconda ondata dell’autunno scorso, gli ospedali di tutta Europa sono stati ancora una volta costretti a rinviare un numero maggiore di interventi per mantenere disponibile un numero sufficiente di letti di terapia intensiva per i pazienti affetti da coronavirus. Molti ospedali dovranno ora riprogrammare i servizi offerti per ridurre gradualmente l’arretrato, rimanendo allo stesso tempo sempre preparati per l’ingresso dei pazienti Covid-19. In un’ottica razionale, questo dovrebbe costituire una ragione valida per investire sempre più nella medicina territoriale, garantendo un’assistenza primaria e preventiva come alternativa all’ospedalizzazione, e per imprimere una svolta positiva alla gestione dei sistemi sanitari con il coinvolgimento di tutti gli attori della sanità.
Oltre che nel settore chirurgico, il Coronavirus ha tagliato le altre cure: saltata una diagnosi su dieci, nel 2020 sono calati del 10% i nuovi trattamenti, sono crollate le visite specialistiche (-30%) e le richieste di esami diagnostici (-22%). Il fatto che tante persone siano decedute per infarto o altre patologie fulminanti per non aver voluto accedere ai Pronto Soccorso degli ospedali pieni di pazienti Covid, non è purtroppo una fake news. Il Covid ha azzerato una gran parte della sanità pubblica: come un uragano, la paura del contagio ha spazzato via le cure e soprattutto la prevenzione per milioni di italiani, che potrebbero ritrovarsi adesso con patologie ben più gravi che se fossero state diagnosticate e trattate in tempo.
Territorio e telemedicina, e la riforma della sanità post Covid sono i leit motiv del nuovo Premier, che ha come obiettivo far diventare la casa dei pazienti il principale luogo di cura, una rivoluzione oggi possibile grazie alla telemedicina e alla assistenza domiciliare integrata. L’esperienza inaspettata e drammatica che la pandemia ha rappresentato è tuttora in atto, e insegna quanto sia necessario riformare la sanità, che, nell’emergenza, ha rivelato i suoi punti deboli proprio riguardo a tutte le cure extra-ospedaliere che raggiungono i pazienti o dentro le mura di casa, o al di fuori, in strutture semplici come gli studi dei medici di famiglia o più complesse, delle quali siamo carenti. La rete di servizi di base dovrebbe comprendere case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria, per potere affidare agli ospedali solo le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative.
Una grande occasione di riforma sarà il Recovery plan, la cui ultima versione prevede, con 20,23 miliardi di fondi UE (mezzo miliardo in più rispetto al Piano precedente) di rafforzare gli ospedali e i presidi locali, sostituire il parco macchinari e finanziare la ricerca scientifica su malattie rare e invalidanti. Il modello di assistenza e il SSN vanno ammodernati: lo sappiamo tutti. Ora, è il momento di agire.
Un breve riepilogo: l’ultima versione del Recovery plan prevede che entro il 2026 saranno realizzate 2.564 Case della Comunità, una ogni 24.500 abitanti, per assistervi 8 milioni di pazienti «cronici mono-patologici» e 5 milioni con più patologie. Altra finalità perseguita è l’assistenza domiciliare integrata ai pazienti, settore nel quale, fino a oggi, l’Italia è fanalino di coda in Europa, per prendere in carico cinquecentomila pazienti over 65. Per l’assistenza a casa si potenzierà la telemedicina, che secondo il Piano assisterà 282.425 pazienti. Infine sono da costruire le “cure intermedie”, per le quali nasceranno 753 ospedali di comunità, uno per ogni 80.000 abitanti, per assistere i pazienti per i quali il ricovero in ospedale non è indicato ma che non possono curarsi a casa.
Ritardi e lentezze non sono mancati, al punto da temere lo sprofondamento, secondo un efficace titolo del Sole 24 ore del 25 maggio scorso, del “Recovery plan nella palude del Parlamento”. Ma è notizia di oggi, 24 giugno, che il Recovery plan italiano è finalmente una realtà: la Commissione Europea, lo ha approvato quasi a pieni voti. Si tratta del primo “via libera”, mentre il secondo è atteso dai ministri dell’economia dei 27 stati membri UE, e potrebbe arrivare già il prossimo 13 luglio.
Migliorare l’efficacia nel rispondere ai bisogni di cura, alla luce delle criticità emerse durante la pandemia, è fondamentale: mai come adesso è apparso chiaro quanto siano importanti la prevenzione e l’integrazione fra servizi sanitari e sociali per garantire equità nell’erogazione delle prestazioni sanitarie; se alla malattia si aggiunge la povertà e l’incapacità ad accedere alle cure, si cade nel baratro di una profonda inciviltà. Abbiamo descritto come la pandemia abbia avuto pesanti conseguenze sulla salute degli italiani, parlando di screening sospesi e di visite rinviate, anche per motivi economici. Per le fasce di popolazione più deboli e più fragili, in molti casi ha significato non trovare più l’aiuto di chi da sempre si prendeva cura della loro salute, con gli ambulatori chiusi, non più in condizione di operare in sicurezza: sono mancati, ai meno abbienti, oltre che i farmaci, il necessario per sopravvivere. Un vasto supporto alle strutture pubbliche da parte di delle realtà non profit e dalle varie associazioni professionali (Federazione degli Ordini dei Farmacisti, Federfarma) e industriali (Egualia, Assosalute) che operano in campo sanitario non è mancato, ma tocca allo Stato, ricordiamolo, assicurare la salute dei suoi cittadini.
Rosamaria Alibrandi