A Palermo si dice, ma non si fa | La campagna di detti e contraddetti - Live Sicilia

A Palermo si dice, ma non si fa | La campagna di detti e contraddetti

Nemici giurati, incompatibili, avversari. Adesso, corrono insieme. Come se nulla fosse successo.

PALERMO – Sono lontani quei momenti, diceva il cantante. Quei momenti in cui se ne davano tutti di santa ragione. I giorni in cui Orlando sbeffeggiava il Pd, gli stessi in cui i democratici gli davano del “pugile suonato”. Sono lontani, ma nemmeno tanto, quei momenti in cui Fabrizio Ferrandelli assicurava che Micciché e Romano non avrebbero fatto parte del suo progetto. E quelli in cui gli stessi assicuravano di non volere nulla da spartire con l’ex deputato del Pd. Sono vicini, vicinissimi invece i giorni in cui il giovane Ismaele Lavardera “snobbava” Matteo Salvini: “Grazie per l’interessamento, ma siamo troppo diversi per correre insieme” diceva in sostanza. E invece adesso sono insieme sul lapino. Come Orlando e il Pd. Come Ferrandelli e Micciché. In questa campagna elettorale dell’incoerenza. Dell’ipocrisia politica.

Prendi il Pd. Che ieri ha fatto la voce grossa contro quei militanti che hanno deciso di non correre con Orlando. E ai quali il segretario provinciale ha pure impedito il rinnovo della tessera. Eppure, proprio Carmelo Miceli a quei militanti avrebbe, anzi, dovuto assegnare una tessere speciale. Per avere, in fondo, seguito la linea del partito. Anzi, proprio la linea di Miceli. Che a metà del 2016, ad esempio, in pochi giorni riusciva a far giungere su Orlando una grandinata di “cortesie”: “Ho sempre segnalato, anche ad alcuni inguaribili nostalgici del mio partito – disse ad esempio il 9 agosto scorso –, che avvicinandoci alle amministrative avremmo assistito ad una sceneggiata che a Palermo va in onda da più di 30 anni”. Il protagonista, ovviamente, è il sindaco uscente, che pochi giorni prima aveva a sua volta accarezzato il partito di Miceli: “Il Pd ha perso il consenso, chi si allea con loro perde il consenso”.

Eppure, eccoli insieme oggi. Nonostante lo stesso Miceli avesse assicurato, petto in fuori, che non si sarebbe ripetuto “uno schema già visto, trito e ritrito per certi versi politicamente patetico. A differenza delle puntate precedenti, – assicurava Miceli nell’autunno del 2016 – chi ha mal governato la città relegandola agli ultimi posti di tutte le classifiche è Orlando stesso, non altri”. Non finisce qui, ovviamente. “Palermo e i suoi cittadini, stavolta, – ribadiva Miceli – non sono disponibili a farsi incantare da chi, sulla scena da sempre, ha prodotto solo buone intenzioni e raccolto macerie, e persevera nello spacciarsi per nuovo. Il ‘cavaliere senza macchia né peccato’ Leoluca Orlando. Tra essere nuovo e recitare il nuovismo – concludeva – la differenza è tanta, troppa anche per un abile ma stanco e attempato attore come Orlando”.

Ovvero il candidato sindaco che Miceli ha appena scelto di sostenere. Idee chiarissime, evidentemente. Ma del resto, i matrimoni si fanno in due. E anche Orlando è tornato sui suoi passi, rispetto a quando infieriva sul partito: “Un candidato che appaia espressione del Pd non ha nemmeno il voto di sua sorella”, diceva nell’ottobre del 2015. Nel frattempo almeno la sorella si sarà convinta. Lo stesso Miceli, del resto, in quei mesi recitava il de profundis della Palermo di Orlando, prendendo spunto da un pezzo del Corriere della Sera: “Servizi pessimi, malcontento diffuso e tasse locali troppo alte. Questa la triste foto di Palermo scattata oggi dal Corriere della Sera. Una città allo sbando, tanto quanto la giunta comunale che la guida. Una Caporetto, dove la speranza si è trasformata in rassegnazione, le illusioni in disincanto”. E il disincanto, probabilmente, ha portato a calare la testa di fronte alla richiesta di non presentare nemmeno il simbolo del Pd.

Eppure era solo il 26 gennaio scorso, due mesetti fa, quando lo stesso implacabile Miceli sbatteva i pugni: “La politica spesso è fatta di contraddizioni. Ma immaginare di chiudere un accordo di centrosinistra nella quinta città d’Italia, capoluogo di Sicilia, senza simbolo mi pare troppo”. Un mese dopo, era il 18 febbraio, toccava ad Antonello Cracolici il “no pasaran” contro le alleanze mascherate: “Se il partito dovesse accettare di non esserci allora sarà un liberi tutti. Non aderirò a una lista civica del Pd”. E invece, quel simbolo è sparito, annegato in una lista che imbarca anche i centristi, tra cui i seguaci di Angelino Alfano, da sempre all’opposizione di Orlando. E lì, strano che al combattivo Leoluca Orlando qualche brivido non abbia percorso la schiena. Nel novembre del 2008, ad esempio, definì Silvio Berlusconi un “corruttore politico” per aver ostacolato la sua corsa alla presidenza della commissione di vigilanza della Rai. Chi era il ministro della giustizia del Cavaliere in quel momento? Già, proprio lui, il suo fresco alleato Angelino Alfano. Lo stesso che pochi anni fa diceva: “Orlando dice che il sindaco lo sa fare? Non è vero”. Miracoli della politica.

Gli stessi che hanno portato alla coalizione geneticamente modificata a sostegno di Fabrizio Ferrandelli. E lì, altro balletto. Forza Italia sì, Forza Italia no, simbolo sì, simbolo no. A luglio Ferrandelli assicurava: “Miccichè e Romano? Sosterranno qualcun altro”. Il candidato aveva del resto stampato i suoi manifesti scegliendo lo slogan “solo con i palermitani”, aveva puntato tutto sul profilo civico della sua candidatura. E quando Miccichè si lagnava assicurando che mai avrebbe rinunciato al simbolo di Forza Italia, l’ex deputato rispondeva: “Sono candidato a governare Palermo e non a fare da spartitraffico tra i partiti e le loro correnti”.

Era il 25 gennaio quando Ferrandelli sembrava chiudere definitivamente le porte ai partiti di centrodestra: “Nessuno – assicurava – sporcherà il nostro progetto con la bandiera dell’appartenenza. Ma sono pronto a dialogare con tutti”. Tutti ? Non proprio. Perché appena sei giorni dopo, sempre Ferrandelli giurava: “Non sono stato, non sono e non sarò il candidato di Miccichè. Pensavo di essere stato sufficientemente chiaro, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. In effetti, chiarissimo il concetto non doveva essere, visto che proprio Miccichè sarà uno dei suoi alleati politici maggiori.

Lo stesso commissario di Forza Italia, per intenderci, che a quella frase replicava: “Ferrandelli ha ragione, non mi ha mai chiesto di essere il mio candidato, né gliel’ho mai chiesto io”. Insomma, si sono incontrati per caso. Nonostante le difficoltà. Le stesse che portarono Miccichè ad assicurare, il 7 febbraio scorso: “Appoggiare Ferrandelli? Non esiste. Siamo incompatibili”. E per chi non avesse capito, ecco un Miccichè ancora più chiaro il giorno dopo: “Ferrandelli? È un capitolo chiuso”. Sono passati appena cinquanta giorni. Molti di più invece ne sono passati da quel 23 gennaio del 2008 in cui Ferrandelli allora alfiere di belle speranze del Partito Umanista, avviava lo “sciopero della fame” per chiedere le dimissioni dell’allora governatore Totò Cuffaro. Che oggi è il regista più o meno dichiarato dell’operazione che ha portato sul giovane ex deputato ex Pd ex Idv ed ex Umanista il vecchio centrodestra di una volta. Quel Cuffaro che l’estate scorsa, annunciando il mitico viaggio in Burundi, assicurava che lui in politica per ora non voleva impegnarsi ma benediceva la candidatura dello stesso Ferrandelli.

Ma il virus dell’incoerenza sta davvero contagiando tutti. Pure i più giovani. Precoce, precocissimo Ismaele La Verdera. Il ragazzo col ciuffo rosso, come lo ha amorevolmente battezzato il suo nuovo partner politico Matteo Salvini, aveva in un primo momento risposto no grazie al corteggiamento della Lega. “Caro Matteo io ho ideali ai quali non rinuncerei nemmeno per un corteggiamento come il tuo”, aveva detto il candidato sul lapino il 17 febbraio. Da allora, in quaranta giorni o sono cambiati i suoi ideali o quelli del leader del Carroccio, perché il 30 Ismaele ha annunciato il matrimonio politico con Salvini e Giorgia Meloni, con tanto di simpatico video sul sofà. Come si cambia per non morire, diceva il cantante.


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