PALERMO – Per i siciliani Milano è sempre stata una seconda casa, una base operativa del malaffare. Nel capoluogo lombardo, si scopre oggi, finiva la droga comprata in Spagna e Marocco dall’avvocato, ormai radiato, Antonio Messina, e dai compaesani Giacomo Tamburello e Nicolò Mistretta. Sono tutti originari di Campobello di Mazara.
Nell’inchiesta della Dda di Palermo ci sono anche i cognomi di due potentati mafiosi che hanno fatto fortuna all’ombra della Madonnina. Si tratta di Giuseppe Fidanzati e Giovanni Morabito. Il primo è figlio di Gaetano, boss dell’Acquasanta, ed ha scontato ventuno anni per traffico di droga, mentre il secondo, Giovanni Morabito, assieme al fratello Mario fanno parte della cosca di Africo dei “Morabito-Palamari-Bruzzaniti”, articolazione milanese della potente ‘ndrina Morabito. Nei loro confronti al momento non sono stati trovati i riscontri necessari alle ipotesi accusatorie e il giudice per le indagini preliminari ha respinto la richiesta di arresto.
Le indagini, però, non sono chiuse. Da oggi, infatti, ci sono nuove strade da battere. O meglio, tracce telefoniche da analizzare. A casa di Tamburello, a Campobello di Mazara, oltre a circa tredici mila euro in contanti, i carabinieri del Ros hanno trovato due telefoni. Due modelli antichi, di quelli piccoli. Talmente piccoli che Tamburello li aveva nascosti in un mobiletto, tra il cassetto e il telaio che lo sorregge. Sembra evidente che volesse nasconderli e adesso saranno analizzati dagli esperti informatici.
Il blitz di carabinieri e finanzieri del Gico, coordinati dalla Procura di Palermo, riporta Milano al centro degli affari illeciti dei siciliani. Un nuovo capitolo di una lunga tradizione iniziata nel lontano 1970 quando una macchina viene fermata ad un posto di blocco in via Romilli. A bordo ci sono Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti, Gaetano Badalamenti e Tanino Fidanzati. Il gotha della Cosa Nostra di allora.
Milano è la città dove Vittorio Mangano, morto in carcere, si trasferì a lavorare come stalliere in una lussuosa villa ad Arcore. Tramite Marcello Dell’Utri era stato incaricato di proteggere l’imprenditore Silvio Berlusconi. Erano gli anni Settanta. Si inaugurava quell’asse Milano-Palermo che rimasto solido.
Un asse fatto di affari e protezione. Come quella goduta da Gianni Nicchi. L’astro nascente di Cosa nostra a Milano ha trascorso parte della sua latitanza. Dove? A casa di Pino Porto. Non è un caso che proprio a Milano, secondo i pentiti Nino Nuccio, Franco Franzese e Andrea Bonaccorso, si era spostata la caccia dei boss Lo Piccolo che volevano ammazzare il figlioccio di Nino Rotolo, boss dell’Uditore.
Pino Porto, soprannominato Pino il cinese, entrò in affari con Cinzia Mangano, figlia di Vittorio, il reggente del mandamento mafioso di Porta Nuova che divenne stalliere, in un consorzio di cooperative di facchinaggio, trasporti e logistica. La donna era sposata con Enrico Di Grusa, che del clan di Porta Nuova sarebbe stato la testa di ponte milanese per il traffico di droga.
Porto a Milano era in contatto con altri due amici storici di Nicchi: Franco Scaglione e Michele Stagno, entrambi coinvolti nel colpo da sedici milioni di euro ai danni della gioielleria Casa Damiani di corso Magenta. Nel pc della compagna di Nicchi i carabinieri trovarono 54 fotografie che ritraevano scene di vita quotidiana durante le feste di Natale 2007. Tra le foto ce n’era una scattata dal balcone dell’abitazione di Pino Porto in via Lopez de Vega a Milano.
Gli ultimi a trasferire la propria base operativa nella città lombarda sono stati Angelo Chianello e Fabio Manno. Entrambi hanno scelto di diventare dei collaboratori di giustizia. Manno, soprannominato sette di denari, arrestato nel blitz Perseo del 2008, era il capo della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio. Era quasi naturale che nel 2006 iniziasse le sue scorribande milanesi. A Milano, infatti, nei lontani anni Sessanta, aveva vissuto lo zio, Gerlando Alberti, detto ‘u Paccarè, l’imperturbabile, pure lui deceduto, in un bell’appartamento in viale Monza. Erano gli anni del grande business del contrabbando di sigarette. All’ombra della Madonnina, Alberti, il boss venuto da Palermo a cui piaceva portare il Rolex sopra il polsino della camicia, fece il salto di qualità.
Manno incontrò i rampolli di casa Fidanzati, il cui capostipite Gaetano sarebbe stato arrestato alcuni anni dopo. Dove? A Milano, naturalmente. Dopo la condanna al maxi processo Fidanzati fu arrestato in Argentina dove Giovanni Falcone era volato per interrogarlo. Bocca cucita. Solo poche parole per dichiararsi prigioniero politico. Nel 2008 nella mafia che provava a riorganizzarsi c’era ancora una volta il suo zampino. Pochi mesi prima, in quello stesso anno, un commando di cinque persone massacrava a bastonate un tossicodipendente palermitano, Giovanni Bucaro, che aveva picchiato la figlia del capomafia, indicato come il mandante del delitto.
Ma Fidanzati era ormai latitante. In carcere l’ultima volta c’era finito a dicembre 2009. Nello stesso giorno in cui a Palermo mettevano le manette ai polsi di Gianni Nicchi, Fidanzati veniva fermato a Milano. Sulla sua testa pendeva una nuova richiesta di arresto. Era nella centrale via Marghera, strada dello shopping. Agli uomini della Squadra mobile milanese disse di essere Augusto Ciano. Quando capì di non avere più scampo, dietro i suoi occhiali scuri, a goccia, chiese una sigaretta ai poliziotti. Anche loro stavano facendo shopping. Liberi dal servizio, ma quella faccia, la faccia d Fidanzati, non poteva passare inosservata. E chi c’era alla guida della Mobile? Alessandro Giuliano, figlio del defunto commissario di polizia, Boris, assassinato nel ’79, che aveva braccato proprio Fidanzati.
Le cronache vanno aggiornate con il sequestro, avvenuto pochi mesi fa, della gioielleria di Gaetano Fontana, condannato per mafia e figlio del defunto boss dell’Acquasanta Stefano, che per investire aveva scelto una vetrina scintillante nel quadrilatero della moda.