Antonio, Lillo, la palmetta... | E questa antimafia tutta da rifare - Live Sicilia

Antonio, Lillo, la palmetta… | E questa antimafia tutta da rifare

L'assoluzione di Calogero Mannino rivela un fatto quasi imbarazzante: nelle aule di giustizia valgono le prove, non le suggestioni e i fatti contano più del plot. Eppure...

La Trattativa e l'assoluzione
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C’è un frammento televisivo di qualche anno fa che adesso assume una luce un po’ diversa, date le circostanze. Dicembre 2012, ‘Servizio Pubblico’ di Michele Santoro (GUARDA): da una parte Antonio Ingroia, consacratissimo indagatore della Trattativa, inquadrato nel celebre sfondo guatemalteco con tanto di palmetta; dall’altra Calogero Mannino, detto Lillo, coinvolto in quel processo che, secondo parecchi auspici, avrebbe rivoltato l’Italia e i suoi scelleratissimi patti come una coppola in disuso.

Ingroia, nel video, si mostra incalzante. Maneggia il suo sigaro con sicurezza. Spara le sue certezze a raffica. Ricostruisce: “C’è un patto con dei pezzi della Democrazia cristiana che costituisce copertura per il sistema criminale mafioso, e che non regge più… A quel punto i due politici, Lima e Mannino, ritenuti da Cosa nostra punti di riferimento, entrano nella lista di coloro che devono essere uccisi… Lei – dice l’accusatore barbuto al suo interlocutore – è stato risparmiato perché la trattativa è andata avanti ed è stato ucciso Paolo Borsellino”. Mannino incassa il colpo e risponde con un trafelato: “Lei è un mascalzone”.

Dal vivo, parve uno scontro impari. Il pubblico da casa sapeva con chi stare. Antonio Ingroia rappresentava l’arcangelo vendicatore, la speranza dei giusti, il vessillo di verità che non ammette tentennamenti. Lillo Mannino era un ‘rottame democristiano’, in odore appunto di Trattativa, sporco di tutte le sporcizie. Uno da eliminare con un colpo alla nuca, magari non senza averlo fotografato prima, uso Aldo Moro, con un’agenda rossa tra le mani.

Oggi, da un’aula di giustizia, non da un salotto della tv, giunge una notizia battuta dalle agenzie alle 10.57: “Il gup di Palermo, Marina Petruzzella, ha assolto l’ex ministro Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato per non aver commesso il fatto”. E la Trattativa, che sarebbe il nickname popolare dell’inchiesta? E gli scelleratissimi patti? E Totò Riina? E Salvo Lima? Tutto sbagliato, tutto da rifare. Nella fredda chiarezza di un tribunale, in prima battuta, si ribadisce un concetto talmente semplice da apparire quasi imbarazzante: i processi si celebrano con le prove, mai con le suggestioni.

I pm impegnati nel dibattimento hanno già dichiarato che impugneranno. All’annuncio, però, ha fatto da controcanto la pacata presa di posizione del procuratore Lo Voi: “L’impugnazione è probabile, ma se non si leggono le motivazioni della sentenza non ha senso anticipare giudizi. Valuteremo”. Ancora una volta, i fatti, che imporrebbero prudenza, contro gli ardimenti che reclamano un palcoscenico, l’accensione delle luci, il puntiglio della vittoria per la vittoria, avverso ogni sconfitta.

Eppure, Giovanni Fiandaca, avvertito professore di diritto palermitano, l’aveva spiegato, con un lucido saggio, che a lui questa storia della Trattativa, giuridicamente, puzzava di patacca. Venne bollato come eretico dai puristi della congiura. Eppure, tanti commentatori laici, senza pregiudizi da difendere, avevano scritto cose non proprio peregrine circa gli sconquassi di una giustizia che risulta per forza poco credibile quando tralascia i particolari e i dettagli, per concentrarsi sul plot, sul quadro d’insieme.

Non resta che prendere mestamente atto dei giorni magrissimi di questa nostra antimafia sminuzzata tra sfaceli e folclore di agendine rosse, corrosa dagli scandali sui beni confiscati, spernacchiata dalle sentenze. Tutto sbagliato, tutto da rifare: è questa l’unica certezza.


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