PATERNO’. Renato Caponnetto era il titolare di un’azienda agricola. La sua unica colpa fu quella di non avere a disposizione il denaro che serviva a pagare le estorsioni delle quali fu vittima.
Per questo, appena qualche giorno dopo la Pasqua del 2015 venne brutalmente ucciso dai cinque balordi che lo picchiarono a sangue in un calvario senza fine. Ed una volta strangolato con un filo della luce ed uno scalpello d’acciaio appuntito venne arso, tra le campagne, in mezzo a dei copertoni in modo da non ritrovare mai più il suo corpo.
Una storia atroce raccontata proprio ad inizio del libro “Al di sopra della legge – Come la mafia comando dal carcere” dal magistrato Sebastiano Ardita.
A volere ed a partecipare al massacro di Renato Caponnetto fu il mafioso Aldo Navarria che negli anni ottanta operava a disposizione del boss Giuseppe Pulvirenti: ovvero, “u Malpassotu”.
Una storia che fa gridare rabbia se considerata alla luce del fatto che uno come Navarria che un assassino che bruciava le sue vittime e che avrebbe dovuto stare al 41 bis, riusciva invece a comandare dal carcere e ad ottenere addirittura la libertà. La libertà di ammazzare.
Sebastiano Ardita, componente del Consiglio superiore della magistratura e per tanti anni Direttore generale dell’Ufficio detenuti, racconta con piglio fermo e umano, le storie che provengono da un sistema carcerario nel quale non tutto sembra andare come dovrebbe.
Personalmente, ho avuto il piacere di organizzare assieme alla collega Mary Sottile un incontro pubblico alla Biblioteca comunale nel quale parlare di una questione solo apparentemente distante dalla quotidianità di ognuno di noi.
E non è un caso che abbiamo voluto approfondire un tema così delicato proprio a Paternò: Renato Caponnetto era di Paternò.
E la dignità con la quale la famiglia Caponnetto ha affrontato un fatto così terribile, è stato bel raccontato tra le pieghe e le pagine del libro di Ardita.
“La mafia comanda quando manca il controllo dello Stato. Quando il programma di rieducazione non è adeguato, la mafia si comporta all’interno delle carceri così come si comporta fuori – ha detto opportunamente Ardita -.
Ed è un fatto doppiamente pericoloso perchè recluta al proprio interno personaggi abbandonati dallo Stato e riesce dal carcere a governare a affari criminali. La repressione non può essere l’unica ricetta. Occorre creare un “carcere civile” nel quale lo Stato sia davvero presente.
Ripensiamo la realtà penitenziara. Strappiamo a Cosa Nostra tanti giovani che vengono reclutati in carcere”.
Ed in un filo sottile che demarca nelle 198 pagine del libro, il racconto, le storie e muri apparentemente insormontabili, c’è un passaggio nel libro che richiama ad una sfida che Cosa Nostra ha lanciato da tempo immemore allo Stato:
“La notte in cui morì Borsellino, quando appresero della notizia della strage, i mafiosi incarcerati all’Ucciardone avevano brindato con lo champagne.
Non è una bella cosa che chi è detenuto per reati di mafia possa disporre di champagne, e ancora meno bello è che possa festeggiare per una strage in cui sono morti poliziotti e magistrati.
Ma il fatto più grave è che l’ingresso dello champagne nel carcere era avvenuto in concomitanza con la preparazione dell’attentato.
Era dunque più che un’ipotesi, era una certezza, il fatto che i capimafia detenuti fossero a conoscenza del progetto e attendessero la notizia della strage per festeggiare”.
In una memoria necessaria che accompagna però commemorazioni e celebrazioni quasi come un rito automatico, da tutto questo non possiamo pensare di farcela alla larga. Perchè tutto questo riguarda inevitabilmente anche ognuno di noi. Le nostre vite. La nostra quotidianità.