Avrei voluto intervistare Barbara Evola, neo assessore al Comune di Palermo. Poi ho pensato che per scrivere di lei non ce ne sarebbe stato bisogno. L’abbiamo ascoltata per Livesicilia – come capiterà a tutti gli assessori della giunta Orlando – ma per un breve ritratto, non occorre. Barbara Evola è stata mia compagna di scuola al liceo Meli. Ci siamo scontrati. Ce ne siamo dette di tutti i colori. Ma io già la stimavo e le volevo bene, nonostante fossimo su posizioni tanto vicine da sembrare diversissime e inconciliabili, nell’età dei sogni che cominciano a diventare responsabilità.
La stimavo e le volevo bene – sentimenti che non hanno subito scoloriture con la lontananza – perché Barbara era ed è una persona perbene. Anzi, forse, si commette un torto rinchiudendo la sua biografia nell’usuale espressione “persona perbene”. Barbara – assessore, mi consenta il tu in nome dei vecchi tempi – è una donna appassionata, onesta e incandescente di solidarietà. Era così anche da ragazza.
Generazioni diverse. Io nell’ultima infornata utile per assistere all’incidente del 25 novembre. In quarta ginnasio, alla fermata di piazza Croci. Antonio, il mio amico rockettaro, suggerì: “Andiamo a casa a piedi”. E così fu. Presto le ambulanze sfrecciarono. Avremmo saputo dopo della tragedia, delle macchine di scorta sugli studenti alla fermata, della morte di Biagio Siciliano, del ferimento grave di Giuditta a Milella, morta anche lei, al termine di giorni di speranza e sofferenza. Barbara arrivò dopo, però non sfuggì all’anima della scuola, mutata per sempre dal 25 novembre 1985. Noi del Meli siamo cresciuti così, con la mano del presagio poggiata sulla spalla. Abbiamo cercato di trasformarla in coraggio, in una visione del mondo amorevole e consapevole del traguardo. Chissà se ci siamo riusciti.
Barbara – ricordi, assessore, che scontri in assemblea? – stava immancabilmente dalla parte dei deboli, contro qualunque potere. Più in là non si è fermata. C’era una barricata giusta. E c’era lei con il megafono in mano. Tanto che adesso a vederla nella stanza dei bottoni mi viene quasi da sorridere. Però so che mi posso fidare, perché Barbara ha salvato gli stessi occhi di allora. E hanno gli stessi occhi coloro che mi vengono incontro mentre scrivo di Biagio e Giuditta, mentre ripenso a mio padre che era professore, mentre rivedo le mattine della scuola. Chissà se i miei sono cambiati.