Bartolo, l'angelo dei migranti | "Sogno ogni notte quei bambini" - Live Sicilia

Bartolo, l’angelo dei migranti | “Sogno ogni notte quei bambini”

Nella foto Pietro Bartolo con la migrante salvata e alla sua destra Antonio Candela, oggi manager Asp 6 (foto Nino Randazzo)

Pietro Bartolo dal 1991 dirige il presidio sanitario dell'isola delle Pelagie. Un anno dopo la tragedia, ricorda quel giorno. In cui salvò la vita di una giovane migrante.

Lampedusa, un anno dopo
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LAMPEDUSA – E’ sempre lì, sul molo del porto di Lampedusa ad attendere gli sbarchi della speranza. Sue sono le prime mani ad accogliere i migranti in Europa, suo il primo sguardo offerto in dono a chi arriva in quel piccolo lembo di terraferma. Si chiama Pietro Bartolo e dal 1991 dirige il presidio sanitario dell’isola delle Pelagie, limes naturale per chi scappa dall’Africa e dal Medio Oriente. Per la burocrazia, Bartolo dirige l’unità sanitaria semplice di Lampedusa e coordina le attività mediche per il fenomeno delle migrazioni. Quelle stellette pesano come un macigno sulla coscienza del medico di frontiera. Da quando è in servizio a Lampedusa Bartolo ha accolto, assistito, curato e confortato più di 250 mila migranti. Dall’improvvisazione che regnava nei primi anni di sbarchi ai giorni nostri, il sistema è cambiato: “Appena si avvista un barcone in prossimità dell’isola – racconta il medico – vengo avvisato dalla Prefettura e insieme ai pattugliatori viene deciso il punto di approdo e l’orario di sbarco”. Sul molo del porto di Lampedusa si concentrano così gli sforzi per il primo contatto e offrire assistenza sanitaria a chi ne bisogno. “Ormai le nostre procedure sono rodate – spiega Bartolo – in banchina organizziamo un triage, trasferiamo in ospedale chi ha bisogno di cure e controlliamo lo stato di salute di tutti i migranti”.

Ma la trama delle rotte migratorie disdegna la routine e gli sbarchi a Lampedusa sono le tragedie del terzo millennio. Quel percorso via mare è un cimitero sommerso con oltre 23 mila caduti negli ultimi 14 anni.

Bartolo era sul molo di Lampedusa anche la mattina del 3 ottobre di un anno fa, quando alla fine della giornata si conteranno 366 vittime per il rovesciamento di un barcone arrivato in prossimità dell’isola e diventato una bara sottomarina a pochi metri dal sogno della terraferma.

A un anno esatto di distanza dalla strage di Lampedusa, Bartolo ha deciso di raccontare quello che ha vissuto in quei giorni con le emozioni a danzare da una timida speranza alla più nera delle disperazioni. “Eravamo in attesa sul molo – racconta – in attesa dell’arrivo del primo peschereccio con a bordo i superstiti. Non era ancora chiara la dimensione del dramma. Dalla prima barca scendono una ventina di persona. Sono tutti sporchi di gasolio. Poi arriva un secondo battello. Altri superstiti. Ma sulla poppa, tra le reti ci sono quattro corpi che sembrano ormai privi di vita”. Bartolo sale a bordo del peschereccio e dopo un rapido controllo si accorge che soltanto tre di quei corpi sono ormai spenti. C’è una ragazza agonizzante. Ma Bartolo registra prima un battito del cuore, poi un altro. Il medico di Lampedusa chiede aiuto: verrà sollevato col corpo della migrante tra le braccia e lanciato sulla banchina dal comandante del peschereccio.

L’ambulanza partirà a sirene spiegate e quella giovane vita verrà salvata. E’ un segno di speranza, il solo di quella giornata che passa alla storia come la strage di Lampedusa.

Per quindici giorni il mare restituirà i corpi delle vittime. “Già nelle prime 24 ore arrivano 115 cadaveri – ricorda il medico – e per ognuno di loro ho dovuto prendere impronte digitali e le foto segnaletiche nella speranza di poter dare un nome e una sepoltura degna”. Nei giorni successivi, Bartolo vivrà il dramma personale di dover compiere gli esami autoptici in condizioni disperate. “Man mano che il tempo passava – spiega con la voce rotta dall’emozione – lo stato dei cadaveri non consentiva più la raccolta delle impronte. Con una piccola tronchesina ho dovuto asportare, da quei corpi straziati, a chi un pezzo di costola, a chi un lembo dell’orecchio a chi una falange delle dita”. Alla fine di quella lugubre cerimonia, Bartolo scapperà in mare e per un giorno intero resterà a largo della sua Lampedusa per piangere in solitudine.

Il 3 ottobre 2013 è stata anche la strage dei bambini. “Hai mai visto il cadavere di un bimbo? Come fai a dimenticare? E’ impossibile, io li sogno tutte le notti, ho impressi i loro volti, i loro vestitini, le bambine con le treccine, gli orecchini….”, ricorda il medico. “Quando li portavano in camera mortuaria apparivano ancora vivi. Speravo che il miracolo della banchina, con quella ragazza strappata alla morte si potesse ripetere. Ma è stato tutto inutile. Molti di quei bambini stringevano in bocca tra i denti una collanina, a mo’ di bavaglio con il crocifisso – continua – non saprò mai spiegare perché l’abbiano fatto. Credo e spero che in procinto di morire, i loro genitori li abbiano voluto affidare a Dio la loro anima. Affidati a quello stesso Dio che li aveva abbandonati”.

A tanti di quei bambini innocenti – se ne conteranno a centinaia – Bartolo ha somministrato il battesimo: “In questi frangenti , con una formula semplificata, possiamo farlo”.

Bartolo ha vissuto in prima linea tutte le tragedie del mare che hanno segnato in noir la storia recente di Lampedusa. Il medico è l’almanacco vivente di quella guerra mai dichiarata. Nel tempo ha imparato a parlare, da autodidatta le lingue della migrazione, il francese e qualche frase in arabo, giusto per farsi comprendere. Ed è proprio a lui che i parenti delle vittime del mare si rivolgono per avere se non una speranza almeno un brandello di notizia sulla sorte dei propri cari. “Ora ho un amico in Siria – racconta Bartolo –è il fratello di uno dei sei medici a bordo del barcone che ha fatto naufragio il 10 ottobre dell’anno scorso, in fuga dalla Libia. Mi ha contattato per avere notizie dei suoi parenti. In quella strage ha perso il fratello, la cognata e quattro nipoti. Siamo rimasti in contatto e spesso ci sentiamo”. Anche gli sbarchi apparentemente più innocui, spiega il medico, possono trasformarsi in trappole mortali. “Nel 2012, quando un barcone arriva dritto dritto al molo dell’isola – racconta Bartolo – ci accorgiamo che qualcosa non va. La stiva della barca è chiusa, sigillata con una porta staccata dalla plancia di comando. Quando scendo giù trovo l’inferno. Venticinque ragazzi erano stati massacrati a colpi di bastone. Li avevano chiusi lì sotto per evitare che la barca si rovesciasse in mare. Nella stiva i loro corpi erano ammassati uno sopra all’altro e le pareti di quel luogo di tortura erano graffiate a colpi di unghia e macchiate di sangue”. Uno dei tanti drammi consumati in quel lembo di mare, contenitore liquido di vite spezzate.

 


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