PALERMO – La politica si è svegliata. Non è un caso che il ministero della Giustizia abbia deciso di inviare ora gli ispettori a Palermo. Dovranno accertare la “effettiva documentazione e soprattutto corretta custodia delle intercettazioni”.
La memoria e l’ispezione, così si apprende da Roma, vanno dritto alle telefonate fra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino che nel luglio 2012, ormai due anni e mezzo fa, resero incandescente l’estate palermitana. I pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, allora coordinati da Antonio Ingroia, volevano depositare e ascoltare quelle telefonate che loro stessi avevano definito penalmente irrilevanti. L’allora presidente della Repubblica, mentre i media anticipavano l’esistenza delle telefonate, si oppose con fermezza, ma ebbe il suo bel fare per farsi ascoltare. Prima si rivolse all’Avvocatura dello Stato, poi al procuratore generale della Cassazione e alla fine fu costretto a sollevare un conflitto fra poteri senza precedenti. La Corte Costituzionale gli diede ragione e le intercettazioni furono distrutte.
Nessuno al ministero della Giustizia, allora retto da Paola Severino, ritenne opportuno capire cosa stesse succedendo a Palermo dove in Procura si consumavano profonde spaccature attorno al processo dei processi. Il capo Francesco Messineo prima non firmò l’avvisò di conclusione delle indagini, ma poi lo fece con la richiesta di rinvio a giudizio, salvo poi prendere le distanze da Ingroia che bollò come “politica” la decisione della Consulta.
Oggi si muove il ministro Andrea Orlando. A primo acchito verrebbe da pensare che tutto sia da ricondurre solo al coup de théâtre di Ingroia. La tragedia diventa farsa con l’ex magistrato che annuncia in un’intervista a Libero di volere svelare il contenuto delle telefonate distrutte “magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben al di là della più fervida immaginazione”. Ha pure un’ idea per il titolo: “Caro Giorgio come stai?”. E allora il dubbio nasce: qualcuno detiene copia di quelle telefonate che avrebbero dovuto essere distrutte in violazione tanto da creare sospetti sulla corretta custodia?
Al netto della farsa di cui sopra, la verità è che due anni fa era impensabile violare il sacrario dell’antimafia palermitana. La presunta Trattativa era già una verità processuale anche se il processo non era neppure iniziato. “Apriti cielo” se solo qualcuno si fosse messo di traverso, magari per sollevare il dubbio sull’impostazione dell’accusa. Sarebbe stato subito etichettato come il nemico di una verità, non già legittimamente da ricercare, ma data per scontata. Il partito della Trattativa era pronto alla lotta. In testa c’era Salvatore Borsellino, fratello di Paolo che, a differenza della misura mostrata da altri che portano il suo stesso cognome, ha scelto la piazza. Fu lui a schierare il popolo delle “agende rosse” contro il capo dello Stato, chiedendone l’impeachment e addirittura le dimissioni. Fu lui ad abbracciare nella pubblica via Massimo Ciancimino, la “quasi icona antimafia” – così lo definì Ingroia – condannato per calunnia e teste chiave del processo sulla Trattativa.
Le cose oggi sono cambiate. L’avamposto della Procura che accusa mafiosi e pezzi dello Stato è una ridotta messa a dura, durissima prova dall’assoluzione di Calogero Mannino, l’uomo che, secondo i pm diede il via alla Trattativa stessa. Salvatore Borsellino ha fallito il tentativo di riportare in aula, a Caltanissetta, Giorgio Napolitano. “La sua audizione non serve”, hanno risposto i soldoni i giudici della Corte d’assise al suo legale, l’avvocato Fabio Repici. Il partito delle Agende rosse arranca: il 13 novembre scorso, giorno dei morti parigini, ha sfilato a Roma – senza che si accendessero i riflettori dei media – in segno di solidarietà nei confronti del pubblico ministero Antonino Di Matteo, minacciato di morte, che del processo sulla Trattativa è l’anima storica. Il Palazzo di giustizia oggi è profondamente diverso da ciò che era due anni fa. Ancor di più, rispetto ad una manciata di mesi addietro, prima cioè che lo scandalo Saguto sui beni confiscati alla mafia lasciasse sul campo le macerie dell’antimafia. Macerie sulle quali per la politica, allora troppo distratta, è più facile camminare.