CATANIA. Antonio Di Grado è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Catania. Dirige la Fondazione Sciascia per volontà dello scrittore scomparso. Assieme ai colleghi Fernando Gioviale e Luciano Granozzi ed allo scrittore Ottavio Cappellani, ha lanciato lo scorso 29 febbraio gli Stati generali del Teatro: appuntamento disertato, dall’amministrazione comunale. Di Grado è stato, negli anni novanta, assessore alla cultura del comune di Catania di Bianco e presidente del Teatro Stabile.
Professore Di Grado, ci dice quali risvolti sono venuti fuori dopo l’iniziativa, della quale anche Lei è stato promotore, a proposito dei teatri catanesi?
All’incontro del 29 febbraio su “teatro e teatri a Catania”, coordinato da me e dai colleghi Granozzi e Gioviale, mi sembrava – per la folla intervenuta, e per spontaneità, vivacità e capacità analitica degli interventi – di rivivere l’entusiasmo delle assemblee del ’68 nelle università occupate, oppure degli Stati generali della cultura da me convocati come assessore alla cultura nel ’93. E comunque si è trattato solo di un primo appuntamento, inevitabilmente e felicemente disordinato: altri ne seguiranno, sui temi individuati e sui progetti possibili. Peccato che l’amministrazione comunale non abbia ascoltato quelle voci, assicurando prima la presenza, poi facendoci rimandare l’incontro, infine sconfessandolo insieme con l’università; e ora, mi dicono, convocando una generica adunanza con interventi rigidamente programmati.
Il “teatro” di Catania ha bisogno di una svolta? Di voltare pagina?
Il teatro a Catania non è solo il Teatro Stabile. Restringendo il tema si rischia di ignorare una realtà molto variegata e ricca, che chiede da decenni l’attenzione che merita. Certo, c’è lo Stabile con mezzo secolo di storia e di successi, che fin dall’inizio puntò sulla tradizione, sulle riduzioni teatrali della narrativa siciliana, sulla committenza a scrittori e intellettuali del calibro di Sciascia e Fava. Ma quel teatro è in difficoltà: il pubblico, nonostante gli sforzi generosi delle passate direzioni, invecchia e si assottiglia; e occorre perciò cercare nuovi linguaggi per trovare nuovo pubblico, soprattutto tra i giovani. Ma c’è tant’altro, nella scena catanese: ci sono numerosi e lodevoli esempi di teatro di ricerca e di sperimentazione, a partire dagli anni del Teatro Club di Nando Greco fino alle compagnie che tutt’oggi sopravvivono con difficoltà pur di non rinunziare ai loro coraggiosi azzardi, alla drammaturgia contemporanea, ad aprire finestre sull’Europa e sul mondo. Ecco: a queste due anime del teatro catanese, quella istituzionale e quella di ricerca, finora quasi sempre separate, occorre offrire occasioni e modalità di ricomposizione.
Cos’è che proprio non ha funzionato finora?
Non c’è unità di intenti e non c’è programmazione. Ma un compito così impegnativo esige figure all’altezza, rappresentative sulla scena nazionale. I dubbi che alcuni di noi hanno civilmente avanzato su certe recenti nomine andavano in questa direzione: come rinunziare – per esempio – alla disponibilità di un eccellente e notissimo uomo di teatro come Vincenzo Pirrotta? Per non parlare dell’acclamato Moni Ovadia, ma anche dell’esperto Filippo Arriva o di altri. Con personalità del genere, lo Stabile avrebbe una risonanza quanto meno nazionale, e potrebbe anche svolgere la funzione di ribalta e di volano per un teatro “altro”, per i teatri “minori” votati all’innovazione e alla ricerca.
Quale contributo potranno dare gli intellettuali e gli addetti ai lavori di Catania?
Nella famiglia del Teatro Stabile di Giusti mi introdusse, tanti anni fa, il mio professore Carmelo Musumarra: lui e Mario Sipala vi svolgevano da tempo un’assidua attività (appassionata e gratuita) di consulenza. Ma anche successivamente l’università, coi suoi docenti più interessati al teatro, ha mantenuto stretti rapporti e ha dato consigli e indicazioni, e non solo allo Stabile ma anche ai teatri “minori”per dimensioni ma non certo per qualità. Però il problema è più ampio, e riguarda l’organizzazione della cultura a Catania. L’intellettualità catanese è disgregata, individualista (lo dico autocriticamente, mettendomi in discussione), talvolta perfino animosa. Non c’è solidarietà, voglia di allearsi o quanto meno confrontarsi come altrove. Vecchi rancori, nutriti nelle penombre di case che fitti tendaggi e malevoli sospetti proteggono dall’afa e dalla socievolezza. Perciò fino a ieri emergevano solo individui di genio che tenevano il mondo in “gran dispitto” mentre ai loro piedi brulicava, misconosciuto, un vastissimo sottosuolo di intelligenza e creatività, ma anch’esso frammentato, preda di ostilità e diffidenze.
Oggi Catania è una città capace di “proporre” ancora cultura? Al netto della scure della spending review che ha colpito ogni amministrazione, come giudica l’operato di Bianco sul fronte della cultura? E quello dell’assessore Licandro?
Con Bianco ho felicemente collaborato come assessore alla cultura, dal 1993 al ’96. Furono anni bellissimi, di risveglio culturale e civile. Forse irripetibili: era la prima elezione diretta dei sindaci, dopo la tempesta di Mani pulite, e la “politica” dei partiti aveva dovuto fare un passo indietro, lasciando il campo a giunte scelte dai sindaci, per competenza e passione, nella società civile. Poi tornarono i partiti con la loro logica spartitoria e strumentale. Ho stima anche per Licandro, collega intelligente ma… assessore “senza portafoglio”. Ma al di là delle persone, il nodo da sciogliere è il circolo vizioso che inevitabilmente si crea tra una cultura che batte cassa e una politica che, in cambio, pianta bandierine.
Che Catania dobbiamo immaginare – sotto il profilo culturale – da qui ai prossimi 10/15 anni?
Con il pessimismo dell’intelligenza, la Catania di sempre. Ma all’ottimismo della volontà concorrono le giovani generazioni che incontro nelle aule universitarie e che spesso mi sorprendono per vivacità e passione. Siamo in un periodo di vertiginosi rivolgimenti, di nuovi linguaggi e nuove istanze, che tocca a loro interpretare e gestire, non a noi inadeguati intellettuali d’antan, né tantomeno al vecchio ceto politico. Se poi ci vorranno al loro fianco, tanto meglio: racconteremo loro, come facciamo ogni giorno, di quella luminosa utopia che si chiamava umanesimo, che si chiamava pensiero critico.
Cosa suggerisce di fare in modo repentino?
Chiuderla con questa stolta concorrenza e promuovere vere assemblee aperte al dissenso. E che la politica faccia un passo indietro, consultando la società e promuovendone le eccellenze.