PALERMO – “I lavoratori della Gesip devono essere licenziati. No, vanno assunti. La Gesip è il cancro di Palermo. No, il cancro è la cattiva politica, responsabile di questo e altri sfaceli”. Per sommi capi, il dibattito sul web – come spesso accade – si svolge sul filo di contrapposte esagerazioni. Per taluni Gesip è inferno, simbolo del male, sentina di ogni nequizia. Per altri sarebbe opportuno offrire garanzie che nessuno ha nell’inverno della crisi. Una risposta meditata al problema sta nel buonsenso e nel giusto mezzo. E’ vero che gli operai con la pettorina sono i primi artefici della cattiva fama che li accompagna. Hanno affrontato la loro missione con piglio paramafioso, sentendosi protetti dalla cattiva politica contro cui adesso scendono in piazza. Palermo, con o senza Gesip, è un agglomerato di fetenzie maleodoranti, nei suoi salotti buoni e nelle sue periferie. Chi ha fegato la scopra a piedi.
Osi una passeggiata in zona stazione e vedrà lo sfacelo rappresentato fino all’ultimo stadio. Ma è pure vero che non si può accettare una soluzione finale da campo di concentramento. La razionalizzazione delle risorse è cosa buona e giusta, il genocidio, la cancellazione di persone e famiglie con un colpo di mano appartiene a logiche estreme e indigeribili. Chi salverebbe una comunità dalla disperazione, dalle ripercussioni sull’ordine pubblico? Si illude chi pensa che basterebbe una compagnia della Celere per reprimere la fame di padri e madri di famiglia. E sbaglia chi dice: ci sono in giro così tanti poveri, perché non potrebbero essercene di nuovi?
È un ragionamento folle opporre alle richieste di pane e lavoro il desolante panorama globale. Il postulato sarebbe: non allarghiamo i diritti, casomai estendiamo la platea della miseria. La comunicazione offerta da un giornale web offre molti vantaggi: la velocità delle notizie, la possibilità di interazione. Fornisce gli strumenti di una informazione democratica a più voci, purché si tenti di costruire interventi lucidi, competenti e costruttivi. Altrimenti si fa presto a trasformare la piazza ateniese in cloaca massima. E non conviene a nessuno. Sulla Gesip, per esempio, si ha come l’impressione, talvolta, di un odio con matrici oscure, che oltrepassa la libertà di una critica legittima per approdare allo scherno e all’invettiva.
Perché? Forse perché in tempi bui, il popolo fisico e virtuale ha bisogno di un capro espiatorio, di un nemico, di un obiettivo su cui sfogare le frustrazioni di una situazione oggettivamente difficile. E i lavoratori della Gesip si propongono spesso come un bersaglio ideale, con una protervia ammirevole per masochismo e idiozia. Attraversano un momento tragico e invece di chiamare la cittadinanza a raccolta intorno a un sentimento di solidarietà, gli uomini e le donne con la pettorina riescono perfettamente ad attirarsi volumi consistenti di rabbia e di rancore.
Sciorinano il ricatto della violenza. Votano non secondo un principio etico di interesse collettivo, ma in ossequio al “papà” di turno che sappia sventolare le promesse più allettanti, ancorché fantasiose. Rappresentano, in qualche voce, la Palermo peggiore: quella che pretende di essere “campata” per diritto divino, senza dare nulla in cambio. Poi ci sono i benpensati che sui giornali cianciano di taniche di benzine, sfottono il dolore degli altri, recriminano contro la propria sorte di disoccupazione e stenti, come se gli stenti e la disoccupazione altrui fossero un balsamo. Certo, a mani piene la Gesip è stata tenuta in vita per un discorso clientelare di voti e di cani da avvincere al guinzaglio con la schiavitù dell’elemosina.
Purtroppo, un meccanismo tanto corrotto non è peculiare di quella situazione. Riguarda la nostra città e la nostra isola. Il ritornello della conoscenza e della raccomandazione è un malanno siciliano. Non sarebbe onesto, adesso, atteggiarsi da virtuosi e indicare in una minoranza l’unica dannata portatrice di un difetto comune. Chi è senza peccato scagli la prima Gesip. Il resto cerchi di porsi il traguardo di proposizioni più meditate, soprattutto per rispetto agli operai virtuosi – e ne esistono – che hanno dato davvero il loro contributo e oggi sono emarginati, stranieri ovunque, ridotti al silenzio.