PALERMO – Non fu un’estorsione, ma un esercizio arbitrario delle proprie ragioni seppur aggravato dal metodo mafioso.
Il Tribunale di Termini Imerese derubrica il reato per il vecchio boss di Ciminna, Salvatore “Sal” Catalano, e lo condanna a 9 mesi di carcere. La Procura aveva chiesto 11 anni.
Due imputati condannati per estorsione
Una pena lieve rispetto a quelle inflitte in un altro processo ad altri due imputati, Vito Pampinella e Filippo Cimilluca, condannati a sei e otto anni. Nel loro caso l’ipotesi di estorsione aveva retto.
Catalano, assistito dagli avvocati Mario Bellavista e Filippo Polizzi, dunque non fece una richiesta estorsiva.

Catalano è rimasto in carcere e agli arresti domiciliari per più di un anno. Con il verdetto è stato rimesso in libertà.
Non c’era solo il racconto della vittima, ma anche le intercettazioni agli atti del processo.
La linea difensiva
L’avvocato Bellavista annuncia ricorso in appello perché ritiene che il suo cliente meriti l’assoluzione piena: l’accusa, basata sul racconto di un commerciante, sarebbe priva di fondamento. Prima però bisogna attendere di conoscere le motivazioni della sentenza è messa dal tribunale presieduto da Gregorio Balsamo.
Le intercettazioni
“Ho capitato un po’ di polvere, qualche cinque chili… male che vada gli faccio saltare la casa… lui per il culo non mi ci prende zio Totò, gliela faccio saltare la casa può stare sicuro”, diceva Filippo Cimilluca al boss di Ciminna Catalano.
Il commerciante è stato accompagnato da Addiopizzo nel percorso di denuncia e nella costruzione di parte civile. Catalano è stato condannato al risarcimento dei danni.
Anche per gli altri imputati era caduta l’ipotesi che avessero imposto al commerciante di diventare soci dandogli dei soldi per la ristrutturazione dei locali.
Poi avrebbero preteso 30 mila euro di buonuscita quando decise di cedere l’attività. Quindi sarebbe iniziata una sequenza di intimidazioni che nel primo processo è stata qualificata come estorsione.
Sal Catalano, 84 anni, fu uno dei boss finiti a processo nell’inchiesta “Pizza connection”, condotta a metà degli anni ’80 da Giovanni Falcone. Negli Usa erano state aperte una serie di pizzerie trasformate dagli italoamericani in terminali dei traffici di stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti.

