"Condizioni disumane in carcere"| Accusato di omicidio chiede i danni - Live Sicilia

“Condizioni disumane in carcere”| Accusato di omicidio chiede i danni

L'avvocato Toni Palazzotto

Francesco Cinà è accusato, assieme al padre e al fratello, del duplice omidicio messo a segno nel 2002 nella piazza di Borgo Vecchio. Chiede l'applicazione di una legge approvata a metà agosto.

PALERMO – È rimasto in carcere cinque anni. La sua condanna è stata annullata sei mesi fa dalla Cassazione e dovrà essere celebrato un nuovo processo d’appello. Nel frattempo, Francesco Cinà, 33 anni, sotto accusa per omicidio, chiede i danni. Esattamente, 8 euro per ogni giorno trascorso in una cella sovraffollata e fatiscente.

I suoi legali, gli avvocati Antonino Palazzotto e Michele Palazzolo, hanno presentato un ricorso al Tribunale civile di Palermo. Si tratta della prima richiesta di applicazione nel capoluogo siciliano della legge 117 dell’11 agosto 2014, con la quale viene stabilito che “i detenuti che hanno subito un trattamento non conforme al disposto della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo abbiano diritto a ottenere la riduzione di un giorno di pena per ogni dieci durante il quale è avvenuta la violazione del loro diritto a uno spazio e a condizioni adeguate, con contestuale previsione in favore di coloro che non si trovino più in stato di detenzione di un risarcimento pari a 8 euro per ciascuna giornata di detenzione trascorsa in condizioni non conformi alle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Cinà è stato arrestato nel febbraio 2009 assieme al padre Gaetano e al fratello Massimiliano con la pesante accusa di avere massacrato, nel 2002, a coltellate Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo nella piazza del Borgo Vecchio. Nei mesi scorsi una delle prove principali è stata dichiarata inutilizzabile. Alcuni testimoni fecero i nomi degli imputati nel corso di una conversazione perché avrebbero subito “illecite pressioni”. La Cassazione ha annullato con rinvio la condanna. Dovrà essere celebrato un nuovo processo d’appello nei confronti degli imputati che in secondo grado erano stati condannati a sedici anni ciascuno di carcere. Nessuno aveva assistito alla ferocia di un delitto commesso in pieno giorno e in una piazza affollata. Alla fine si presentò un testimone, Fabio Nuccio, fratello del collaboratore di giustizia Antonino. Chiovaro e Lupo sarebbero stati uccisi perché avevano rubato lo scooter ad uno dei Cinà e per restituirlo pretendevano un riscatto. Quando i Cinà, manovale il padre e piastrellisti i figli, andarono a chiedere spiegazioni, tornarono gonfi di botte. Chiovaro era esperto di arti marziali. E così sarebbe scattata la vendetta, ricostruita dal giovane Nuccio.

Gli avvocati hanno fatto ricorso in Cassazione, ottenendo l’annullamento con rinvio, facendo leva sull’inutilizzabilità di alcune conversazioni intercettate. Siamo nel 2002, tre ambulanti del Borgo – Francesco Balistreri e i figli Davide e Daniele – vengono convocati dalla polizia. Dicono, come tutti gli altri, di non avere visto nulla. Poi, però, dopo otto ore di attesa, pronunciano i nomi di battesimo degli indagati. Sosterranno di averlo fatto soltanto perché indotti dai poliziotti. Secondo la Cassazione, le conversazioni sono inutilizzabili perché “la Corte ha in buona sostanza acclarato che furono indotte o comunque provocate da illecite pressioni ad opera della polizia giudiziaria”. E così è venuto meno un riscontro alle dichiarazioni di Nuccio. Un riscontro necessario visto che “la Corte ha finito col riconoscere che la rappresentazione del fatto di sangue è frutto della elaborazione e della ricomposizione di eventi oggetto della diretta percezione sensoriale, de visu, del dichiarante e di ulteriori fatti, appresi invece de relato da altre fonti, incerte o rimaste sconosciute”.

Nell’attesa di sapere come andrà a finire Francesco Cinà chiede 14 e 800 euro per i 1852 giorni di reclusione trascorsi fra il carcere di Enna, l’Ucciardone e il Pagliarelli di Palermo. Nel ricorso i legali parlano di spazi ridotti e ben lontani da 7 metri quadrati che vanno garantiti a ciascun detenuto. Di celle condivise, in alcuni casi, con tredici persone, dove era impossibile stare in piedi tutti contemporaneamente. Di scarafaggi, infiltrazioni d’acqua e assistenza sanitaria scadente. E di parenti costretti ad affrontare lunghe file per i colloqui. “Una punizione nella punizione – la definiscono i legali -, estesa anche ai parenti che intendono mantenere i rapporti con il loro congiunto detenuto, loro malgrado, anch’essi sono accomunati in questa perdita di dignità”. Gli avvocati Palazzotto e Palazzolo hanno chiesto, inoltre, l’ispezione delle case circondariali e l’audizione dei direttori.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI