ADRANO (CATANIA) – Prima regola del clan Scalisi: non si devono chiedere somme troppo basse agli imprenditori, se danarosi. Perché altrimenti, se chiedi 2.000 euro a un imprenditore che guadagna i milioni, lui “per morto di fame ti prende e per morto di fame ti lascia”.
A ribadire il concetto è il presunto boss del clan, Alfio Di Primo, detto “Pisciavino”. O anche “Primus”. Così lo hanno inteso i poliziotti, prendendo spunto dal cognome, dando il titolo all’operazione che ha decapitato il clan adranita. Un “pezzo da Novanta”, Di Primo. Forte di un blasone criminale che gli derivava da quel cognato al 41 bis, Pippo Scravaglieri.
Le intercettazioni
A parlarne sono stati i collaboratori di giustizia. Ma soprattutto, tra gli indizi a suo carico, ci sono intercettazioni e trojan installati nei telefonini. Per questa operazione, infatti, la Dda ha confermato come fondamentali, per i poliziotti, siano le tecnologie in campo investigativo. Parla tanto, con gli altri mafiosi, Di Primo.
Di lui, il pentito Giarrizzo, ha detto di aver appreso da uno dei capi che “fìnché non usciva Alfredo Di Primo avrei dovuto aiutarlo nella gestione del sodalizio e delle illecite attività, sia concernenti il traffico di droga che le estorsioni”. Poi, in pratica, quando Di Primo sarebbe stato libero – lui che ha preso una condanna per mafia e omicidi – l’emergenza sarebbe finita.
Un “pezzo da Novanta”
Dalle intercettazioni, si diceva, Di Primo emerge come rispettato e autorevole, all’interno di Cosa Nostra. Il clan Scalisi è legato a doppio filo con i cosiddetti “mussi i ficurinia”, ovvero il clan Laudani. E una delle intercettazioni, brevi, coglie la conversazione con un altro uomo degli Scalisi, che però operava ad Acireale, non Adrano.
Il referente di Acireale, affettuosamente, lo chiama “gioia”. E lui risponde “amore mio, loro stanno aspettando”. Poi si salutano dicendosi “ciao ciao”, e “un bacione”. Il succo del discorso era un appuntamento al vertice della mafia della provincia catanese. L’acese in pratica diceva di essere sul posto, Di Primo lo rassicura che i suoi emissari erano già lì ad aspettarlo.
Il pizzo e gli equilibri
Appena uscito di prigione, Di Primo si sarebbe subito messo all’opera. E a uno dei suoi “fedelissimi”, a cui la polizia aveva fatto installare un “trojan” nel cellulare che registrava tutto, confidava: “Almeno per quello che ho capito… guarda sto cercando di capirci qualcosa”.
Il nocciolo della questione erano i rapporti tra i clan che comandano ad Adrano, ovvero gli Scalisi e i Santangelo, e la ripartizione dei soldi del pizzo. Di Primo avrebbe cercato di entrare in punta di piedi, ma invita tutti a non fare colpi di testa, non “fare cose maleducate”: “Non fate cose che il Signore non vuole”.
Le armi
Su di lui tuttavia tra i mafiosi non c’erano dubbi: dalle intercettazioni ambientali emerge che lo considerano “espressione diretta” della famiglia, degli Scalisi. Il gruppo capeggiato da Di Primo avrebbe anche cercato di non temere nessuno. E di dotarsi di armi.
In un’intercettazione, Di Primo confida al cugino di aver incontrato delle persone che trafficavano in armi e di aver offerto 50 mila euro in cambio di “quelle cose”, cioè una partita di pistole. Queste le parole intercettate: “Gli ho detto ti mando un ragazzo, ti faccio avere cinquantamila euro e me li porti un poco di queste cose”.