La recente nomina di due noti pm come assessori regionali consente di affrontare alcuni interrogativi nevralgici in un sistema come il nostro, fondato sul principio della separazione dei poteri. Per affrontare di petto la questione occorre dare una risposta a una, non facile, domanda di fondo: per quale ragione contro i pm si scatenano le più sanguinose polemiche e accuse di politicizzazione ogni qualvolta si occupano di politici, e queste polemiche si spengono invece che riaccendersi quando magistrati cominciano ad occuparsi direttamente di politica, anziché di politici, entrando essi stessi nell’agone della politica attiva? Come mai la cosa passa quasi inosservata quando c’è a disposizione un argomento così ghiotto, che consentirebbe di addurre un’evidenza del tasso di maggiore politicizzazione di magistrati che palesano così apertamente il loro riferirsi ad uno o all’altro schieramento politico?
Lasciamo, per il momento, la domanda in sospeso e spostiamo il nostro punto di osservazione. Usciamo dal recinto istituzionale della polemica fra politica e magistratura e proviamo a guardare la cosa dal punto di vista più importante, quello dei cittadini. Ebbene, non vi è dubbio che la qualità più apprezzata nel magistrato da parte dei cittadini è la sua imparzialità, di cui l’indipendenza e l’autonomia da ogni altro potere, la soggezione soltanto alla legge sono i principali puntelli e garanzie. Ma non basta. Agli occhi del cittadino il magistrato non soltanto deve essere imparziale ma deve anche apparirlo. Il che non significa non avere idee: un magistrato, imparziale nell’esercizio delle sue funzioni, deve essere anche giusto, cosa che implica operazioni di interpretazione della legge e di adattamento della norma astratta ai casi concreti, che devono essere improntate ad ideali e fini di giustizia. E non solo. Perché imparzialità non significa neppure non avere idee politiche. Ogni cittadino le ha e ha diritto ad averle, il magistrato che dichiarasse di non averle sarebbe ipocrita e la non sincerità mina il rapporto di fiducia che deve legare una società coi suoi giudici. La cosiddetta neutralità della magistratura è stata, specie nel lontano passato, un feticcio, un alibi dietro il quale si nascondeva invece una magistratura imbelle coi potenti, quella magistratura che in Sicilia negava l’esistenza della mafia, al punto di ignorarla nei discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, che si guardava bene dall’indagare sulle malefatte della classe dirigente isolana e che vanificò per anni l’incriminazione per associazione per delinquere infilando una serie infinita di assoluzioni per insufficienza di prove. Di contro, l’accusa di politicizzazione è stata per lo più strumentalmente utilizzata per colpire soprattutto un’altra categoria di magistrati, quelli che facevano il loro dovere sino in fondo, senza sconti per nessuno, in aderenza al principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge: uomini che furono prima denigrati dalla “Palermo bene” e poi uccisi dalla mafia come il procuratore Gaetano Costa e i giudici Falcone e Borsellino.
Ma torniamo ai cittadini, che ripongono fiducia nella magistratura a patto che dimostri imparzialità ed indipendenza. Ne consegue che ogni sintomo di appannamento dell’indipendenza incrina quel patto fiduciario. D’altra parte, non possono ignorarsi i diritti costituzionali di ogni cittadino, magistrati compresi, a cominciare dal diritto di elettorato, attivo e passivo. E se al diritto di elettorato attivo si accompagna il diritto di avere le proprie idee politiche, all’elettorato passivo corrisponde, ovviamente, il diritto di farsi eleggere. E sono tanti i magistrati, in aspettativa, che oggi popolano le aule parlamentari o che si sono dimessi dalla magistratura per proseguire la loro battaglia per la legalità dentro l’agone politico.
Allora bisogna chiedersi se questi diritti politici non debbano subire alcuna limitazione quando riguardano cittadini “speciali” come i magistrati. In primo luogo, qualche cautela supplementare è imposta dal principio della separazione dei poteri, principio spesso invocato dai magistrati rispetto alle invasioni di campo della politica, contestando ritenuti progetti di omologazione della magistratura e di subordinazione alla politica, ma che va tenuto presente anche per evitare interferenze e supplenze del giudiziario rispetto alla politica. In secondo luogo, non vanno ignorate le aspettative dei cittadini e i conseguenti rischi di cortocircuito istituzionale e di fraintendimento che potrebbe ingenerare l’ingresso diretto del magistrato in politica. Ed allora, di fronte alla delicatezza delle questioni che si pongono ed ai rischi conseguenti all’affidarsi esclusivamente al senso di responsabilità di ciascuno ed alle scelte discrezionali del momento, è forse giunto il momento di pensare a regole condivise che trovino una consacrazione in norme legislative o regolamentari. Fermo restando, ad esempio, il diritto di ciascuno di sottoporsi al giudizio degli elettori per iniziare un nuovo percorso personale, questo diritto non si affievolisce di fronte all’inopportunità di candidarsi nel medesimo territorio ove si è esercitata fino a quel momento una funzione giudiziaria? Non vi è il rischio, altrimenti, che si alimentino dubbi e sospetti sulla pregressa attività giudiziaria, che possa avere indebolito o rafforzato l’uno o l’altro schieramento politico? Ed ancora più delicata si fa la questione (è il caso, ad esempio, dei due neoassessori regionali siciliani provenienti dalle file della magistratura) allorquando l’incarico politico non viene assunto sulla base di un’investitura da parte dei cittadini-elettori, ma in virtù di una designazione fiduciaria per ricoprire cariche politico-governative, designazione proveniente da un’autorità di governo locale espressione di una parte politica. In questo caso i profili di inopportunità crescono, ed è questa probabilmente la ragione che ha suscitato qualche perplessità in autorevoli sedi istituzionali come il Consiglio Superiore della Magistratura, che del rispetto del principio di imparzialità, indipendenza e autonomia della magistratura, reale e apparente, è custode e garante. Ed ancora, ultima questione non meno delicata è quella sul rientro in magistratura dopo avere svolto un mandato politico: proprio certi che, una volta varcata la soglia della politica, non si debba chiudere alle proprie spalle per sempre la porta della giurisdizione? Quanto i cittadini si sentiranno garantiti dall’imparzialità di un magistrato per anni prestato alla politica?
Stranamente però sul tema sembra esserci un silenzio assordante. Ed allora possiamo provare a rispondere alla domanda che ci siamo posti in premessa. Il motivo per il quale le polemiche più violente si abbattono sui magistrati che si occupano di politici, anziché su quelli che si occupano di politica, è terribilmente semplice: i primi sono quelli che fanno paura perché rischiano di diventare un modello virtuoso per i cittadini, i secondi sono più rassicuranti… Risposta maliziosa? Forse, ma certo furono ben più maliziosi i veleni che per la Sicilia circolavano in danno di Paolo Borsellino, quando lo si accusava di volersi procurare un sicuro approdo nell’attività politica, proprio perché un magistrato che stesse preparandosi una carriera politica era più rassicurante, mentre un personaggio limpido come Borsellino per la Sicilia di quei tempi era quasi eversivo. Ma Borsellino era semplicemente se stesso: pur avendo sempre avuto idee politiche chiare e nette, non se ne fece mai influenzare nella sua attività e mantenne alto il nome e l’immagine della magistratura siciliana, una magistratura indipendente ed intransigente. Sempre geloso della propria autonomia della politica, dall’inizio fino al tragico epilogo della sua carriera. Modello di magistrato e cittadino troppo spesso ricordato a parole e tradito nei comportamenti quotidiani.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 7 di “S”