Il dominio “Ercolano-Santapaola | Intrecci tra imprenditoria e mafia” - Live Sicilia

Il dominio “Ercolano-Santapaola | Intrecci tra imprenditoria e mafia”

Il sostituto commissario della Direzione investigativa Antimafia Mario Ravidà, 38 anni di servizio, svela i segreti di Catania in un libro, Carne da Macello. Ecco in esclusiva alcune anticipazioni. PRIMA PUNTATA.

rivelazioni sul sistema Catania
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CATANIA- Prima all’antiterrorismo della Digos di Napoli, poi alla squadra mobile di Catania fino al 1986,  la Criminalpol e, dal 1993, in servizio alla Direzione investigativa Antimafia. Mario Ravidà, 58 anni, è uno dei principali testimoni del processo sulla trattativa Stato – mafia, ha seguito indagini eccellenti e conosce a fondo Catania. Lo abbiamo intervistato  in esclusiva.

Qual è stato il periodo più difficile  per Catania?

Catania è sempre stata una città particolare, la connessione tra mafia e politica è stata alla base di ogni cosa. Nel 1984 si era appena conclusa l’operazione che aveva portato all’arresto di Salvatore Parisi detto “Turrinella”, in flagranza di reato, dopo l’uccisione di Giovanni Carnazza, e Luigi Randelli, due Cursoti di peso che si trovavano a Torino.

Dopo l’assassinio Parisi e Randelli si pentirono e fecero delle dichiarazioni pesanti che coinvolsero quasi tutti i settori istituzionali di Catania, a cominciare dai magistrati che si erano venduti a Cosa nostra, appartenenti alle Forze dell’Ordine, avvocati e imprenditori. A seguito delle loro dichiarazioni scattò l’operazione che portò a inquisire parecchi personaggi ritenuti intoccabili: il presidente della Corte d’Assise di Catania, un giudice della Corte d’Appello di Catania, guardie carcerarie, avvocati, finanzieri, sottoufficiali e il comandante provinciale dei carabinieri dell’epoca, poi assolto per insufficienza di prove, accusato di aver fornito a Nitto Santapaola una notizia per consentire ai Cursoti di far evadere, durante una traduzione da un carcere all’altro, il boss Angelo Pavone che doveva essere giustiziato dal clan. Prezzo per la libertà del giovane Pavone, la vita di tre giovani carabinieri che lo stavano scortando . Ad accusare il comandante provinciale fu Salvatore Parisi, uno degli assassini di quella che poi fu conosciuta come la strage di San Gregorio”.

Qual era il vero volto di Catania?

Era totalmente in mano alla criminalità organizzata, i clan mafiosi si contendevano il territorio a colpi di armi da fuoco. Il contrasto era inesistente.

E l’informazione che ruolo aveva?

Non mi spiegavo come mai tutte queste storie non venissero attenzionate dai telegiornali nazionali, non c’era un Caso Catania nonostante centinaia di morti ogni anno.

Ti ricordi di Pippo Fava?

Certo, era l’unico a denunciare le connessioni tra politica, mafia e imprenditoria, qualcosa ce la dichiarò il collaborante Pattarino, disse che l’omicidio fu deciso nella sua stanzetta, dove si nascondeva Santapaola. Pattarino ricorda che c’era un viavai di politici e imprenditori che chiedevano favori allo Zio Nitto, tra questi proprio l’eliminazione di Pippo Fava, che con i suoi articoli poteva compromettere gli affari catanesi.

E Nitto?

Era lui il numero uno, latitante da anni. Io facevo parte della Squadra mobile e mi resi conto che nessuno lo cercava. Per quanto mi risulti poteva girare indisturbato per la città. I questori che si alternavano erano attenti a non creare frizioni col mondo politico locale, da anni luogo di predominanza democristiana. In particolare curavano i rapporti con un leader, Drago. Erano tutti andreottiani, Drago era l’alter ego di Lima a Catania. Alcuni politici sono stati anche fotografati, insieme a esponenti delle istituzioni, con Nitto Santapaola durante l’inaugurazione di una concessionaria d’auto.

Durante le indagini dell’omicidio di Pippo Fava, il leader democristiano Drago, disse che “Catania era lontana dalla contaminazione mafiosa”, successivamente fu tra quelli che criticavano gli attacchi ai Cavalieri del lavoro dichiarando: “Cerchiamo di non fare in modo che i nostri operatori emigrino investendo i loro denari in Piemonte o Liguria”.

Perché dici che il contrasto non c’era?

Nessuno della Squadra mobile faceva indagini sulle connessioni politico mafiose. La Squadra mobile anche se aveva il compito di sviluppare le attività in questo senso non poteva farlo perché era che era priva di mezzi per le intercettazioni, i vecchi Rt2000, chi ne aveva uno lo nascondeva per le emergenze, e secondo motivo l’emergenza criminale, non c’era il tempo di accertare un reato che già ne avveniva un altro. Ci limitavamo a constatare i fatti. Quando c’era qualche operazione quasi sempre scaturiva da una confidenza e quasi mai da un’attività d’indagine.

Quali sono, invece, le operazioni importanti che ha fatto la Squadra mobile negli anni ’80?

Pattuglie antirapina, eravamo senza macchine, in quel contesto mi sono chiesto che ruolo avevamo noi e mi resi conto che dall’alto non volevano che si contrastasse efficacemente cosa nostra. I nostri Questori, prefetti e procuratori erano perfettamente a conoscenza di questa limitazione, non hanno mai denunciato questo stato di cose. Chi subiva erano sempre gli onesti, in particolare i pochi imprenditori che pativano la prepotenza incontrastata delle organizzazioni criminali e mafiose, pagando sistematicamente tangenti. Gli altri, i famosi Cavalieri del lavoro, erano perfettamente contigui al potere giudiziario-politico-mafioso. Basti pensare che tutti gli appalti pubblici di notevole consistenza venivano aggiudicati da loro, i Cavalieri, che conseguivano introiti miliardari. Le conseguenze di queste cose si vedevano ogni giorno: le strade erano un pantano, le scuole erano prive di elementari sistemi di sicurezza e la beffa era che la manutenzione veniva fatta sempre da loro.

Le spese le affrontavano i cittadini, perché loro, i Cavalieri, non potevano fare opere pubbliche di qualità, dato che dovevano pagare le tangenti ai politici che avevano concesso l’appalto e alla mafia, dopo, che li proteggeva. Le opere venivano realizzate solo con lo scopo del guadagno.

Nel nostro piccolo facevamo quello che eravamo in grado di fare. Quando potevamo uscire con la pattuglia ci impegnavamo al massimo, effettuavamo centinaia di controlli.

Mi spieghi come ti sei preso una pallottola?

Durante un servizio di pattuglia avevamo avuto la notizia di uno scambio di stuipefacenti che doveva avvenire a Picanello, aspettavamo lo scambio che doveva avvenire in un posto ben preciso, dopo parecchio tempo non avvenne. Noi eravamo al buio e c’era un ragazzo fermo all’angolo che si toccava continuamente la cinta dei pantaloni. Secondo me aveva un’arma addosso. Decidemmo di controllarlo. Io ero alla guida dell’autovettura e il mio collega al mio fianco. Fermai l’autovettura, con la pistola in mano gli intimai di fermarsi, mi guardò con indifferenza e scappò. Io gli puntai la pistola addosso, potevo ucciderlo, ma non me la sentì, sparai tre colpi in aria. Il giovane si girò, estrasse una 38 special canna lunga e girando solo il braccio sparò verso di me. Evitai il colpo, risposi al fuco da terra, i proiettili si conficcavano in un muro sollevando polvere. Il giovane si girò, sparò di nuovo e mi colpì. Provai un fortissimo dolore all’altezza del femore, la pallottola dal femore deviò fino al gluteo.

Cosa hai pensato in quel momento?

Ero dispiaciuto per quello che poteva succedere dopo la mia morte, per quello che avevo lasciato e per quello che avrei perso morendo. Piansi fino a quando il medico non mi tranquillizzò, dicendo che la pallottola non aveva preso organi vitali, ma si era fermata a pochi centimetri dalla spina dorsale.

Il giovane fu catturato dopo un altro conflitto a fuoco, ci chiamava Giovanni Oliva, durante il processo mi contattarono diverse persone per convincermi ad affievolire la posizione del ragazzo, in particolare due colleghi della squadra mobile e Salvatore Pappalardo, un mio amico d’infanzia del quartiere Monte Po, che era risaputo facesse parte del clan Santapaola.

In entrambi i casi ho risposto che non avevo nulla da ammorbidire e che dovevo solo dire la verità. Il capo di gabinetto della Questura di Catania, tre mesi dopo il mio rientro, mi convocò con altri componenti della squadra, comunicandoci che era stato assegnato per ciascuno di noi un premio in denaro: 50mila lire! Mi porse queste 50mila lire e mi disse: “Questi te li metti nel buco della pallottola”. Mi fece più male quest’episodio che la pallottola che mi aveva ferito.

Perché hai deciso di scrivere un libro?

Per dare un senso alla morte dei miei colleghi, perché vengano ricordati come martiri di legalità e giustizia nella memoria delle persone oneste.

Perché intitolare il libro Carne da macello?

Si riferisce ai caduti che ci sono stati tra le forze dell’ordine, la magistratura e la politica, questi caduti hanno senso solo per le persone oneste.

C’è molto altro da raccontare?

Sì. Dobbiamo parlare delle inchieste più importanti dagli anni ’90 a oggi, di alcuni equilibri delicati della città che non sono mai cambiati.

 


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