Creare per vivere (al tempo della pandemia) - Live Sicilia

Creare per vivere (al tempo della pandemia)

Se le contingenze ce ne allontanano, proviamo a considerare noi stessi come “unità culturali” che si difendono.
ROSAMARIA'S VERSION
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Sapete quanti sono i pensieri che attraversano la mente in una giornata? Sessantamila, al ritmo, quando siamo svegli, di circa un pensiero al secondo;quel che più sorprende, è che siano in gran parte pensieri negativi.

Secondo una ricerca del professor Fred Luskin della Stanford University, i pensieri creati quotidianamente dal cervello umano sono ripetitivi per il 90%; e, come dimostra un successivo studio condotto nell’Università del Texas, il 70% dei 54.000 pensieri ripetitivi sono negativi, generati dal bisogno inconscio di superiorità, amore e controllo. Secondo i ricercatori, producendo costantemente pensieri negativi/ripetitivi, si forma l’abitudine a pensare negativamente e a generare i cosiddetti “ANTs”, i“pensieri negativi automatici”. Per rompere il circolo vizioso della negatività, occorrerebbe compensare ogni pensiero negativo con un pensiero positivo attraverso un percorso di consapevolezza e di sostituzione, finché non diventi naturale conseguire uno stato d’animo positivo. Gli psicologi, lanciando la sfida per la felicità, forniscono una serie di consigli, facilmente reperibili anche in rete, su come provare a diventare, e a rimanere, felici.

Questa è la teoria. Nella prassi, la creazione di una realtà contemporanea del tutto nuova, attuata, a causa della pandemia, tramite il confinamento nello spazio privato e la chiusura degli spazi comuni nei quali fluiva la socialità, in base a criteri come la salvaguardia della salute e il contenimento del contagio, certamente non contribuisce a rasserenarci e a rendere più lieti i nostri pensieri, avvolti come siamo da un’aura di morte, di pericolo, di paura e di privazione dagli svaghi.

Le chiusure rievocano schemi usuali del passato, dei quali si hanno tracce storiche sin dal Medioevo, coi suoi cupi lebbrosari, confini orridi di esseri umani privati persino dello status di persona, definito l’era dei secoli bui, tanto per dare un’idea sul tasso di felicità del periodo. Dai lebbrosari ai lazzaretti durante le grandi pestilenze cinque-secentesche, dalle quarantene ai cordoni sanitari fino all’Ottocento inoltrato, il ritmo, i toni, il significato e l’organizzazione dell’intervento statuale si sono affermati e declinati per gestire l’emergenza. Ora come allora, quando queste scelte si autogiustificano, identificando i bisogni esclusivamente con le necessità materiali, il rovescio della medaglia è la dolorosa separazione dell’ “arte”- nella sua accezione di attività umana volta a produrre opere di creatività cui si riconosce un valore estetico – dalla vita, nonostante ne sia il frutto più nobile, cui consegue un mutamento sostanziale delle dinamiche dell’esistenza.

Nel Settecento, gli Illuministi credettero finalmente di poter plasmare il mondo grazie alla ragione e alla scienza. Oggi, attraverso quelle stesse armi un tempo vincenti, il tecnicismo ha acquisito una forza smisurata conculcando, piuttosto che affermare, le libertà dell’uomo e del cittadino; e la ragione, mentre il destino ci sconfigge con l’imponderabile, in questo caso rappresentato dal virus, esorta a ridurre la sfera dei diritti. In questo frangente molte restrizioni sono necessarie; ma ciò non toglie che la continuativa sottomissione degli attori sociali a leggi eccezionali, distrugga la creatività. Se tutto è ragione, o meglio, ragion di Stato, muore l’arte, il teatro, la musica, la pittura, il cinema. La creazione di realtà “sicure” immediatamente visibili, tramite le chiusure e le restrizioni, si è a buon diritto affermata a causa dell’attuale stato di rischio sanitario, ma ci separa da tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta.

La logica è razionale, ma il non logico è vitale.

Il cambiamento radicale che ha investito la società mondiale, europea e, segnatamente, quella italiana, la complessità del fenomeno pandemia e la conseguente crisi dei modelli e dei paradigmi delle “normalità”, richiedono un superamento degli schemi tradizionali per potere ancora scoprire, ogni giorno, di essere grati per la vita. La realtà si manifesta attraverso le persone, e nessuno ha dimenticato il mesto convoglio di mezzi militari carichi di bare che attraversò la città di Bergamo solo un anno fa, mentre sembra sia trascorso un secolo da quando non era ancora chiara la gravità della situazione. Ma quando si vive dentro un problema, non si può non cercare una soluzione. La ricerca della felicità è un diritto: non potendo trovare nuovi spazi, dobbiamo vederli con nuovi occhi; è giunto il momento di ricorrere alla nostra creatività, perché l’essenza delle cose non può essere colta senza l’immaginazione. “Quante volte”, scrive Marcel Proust “nel corso della mia vita la realtà mi aveva deluso perché, nell’istante in cui la percepivo, l’immaginazione, che era l’unico organo che possedevo per godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa”. Creatività e immaginazione, se decidiamo che il tempo del lamento è finito, costituiscono un bacino di soluzioni per cambiare le regole del gioco in corso: la posta è la salute mentale, la cui perdita aggiungerebbe la beffa al danno pandemico.

La Commissione Cultura del Parlamento Europeo ha pubblicatoun report, nel febbraio 2021, Cultural and creative sectors in postCOVID-19. Europe Crisiseffects and policy recommendations, da cui si evince che i settori culturali e creativi (CCS) sono stati colpiti duramente dalla pandemia. Questo studio analizza gli effetti della crisi sui CCS, così come le risposte politiche formulate per sostenerli. La ricerca definisce culturali e creativi tutti i settori le cui attività sono basate su valori culturali e su espressioni artistiche e creative, sia che siano, o meno, orientate al mercato. Queste attività includono lo sviluppo, la creazione, la produzione, la diffusione e la conservazione di beni e servizi, e le funzioni correlate, come l’istruzione o la gestione di settori che comprendono, tra l’altro, l’architettura, gli archivi, le biblioteche, i musei, l’artigianato artistico, l’audiovisivo (film, televisione, radio, videogiochi e multimedia), ed anche design, turismo, festival, musica, letteratura, spettacolo, editoria, ovvero tutto il patrimonio culturale tangibile e intangibile per il quale il nostro Paese è famoso nel mondo. In particolare, gli effetti della crisi COVID-19 si concentrano su spettacolo, musica, arti visive, artigianato, fruizione di beni culturali, cinema, editoria: in buona sostanza, su tutto quello che rende sostenibile l’esistenza.

Abbiamo dovuto accettare che con il lockdown il nostro mondo sia cambiato. Musei, cinema, teatri, sale da concerto, spazi culturali di ogni sorta hanno chiuso i battenti. In Europa, secondo recenti stime, il comparto ha perso oltre il 30% del proprio volume d’affari (da circa 650 mld del 2019 a poco più di 440 mld nel 2020); il settore musicale e quello delle arti performative hanno riportato una contrazione pari, rispettivamente, al 75% e al 90%. È ora necessario riappropriarci di cultura e bellezza, i tratti distintivi della civiltà. Come ricorda il politologo tedesco Ralf Dahrendorf, “in tempi normali gli intellettuali sono utili, in tempi di rivolgimento sono necessari”. La citazione apre l’ultimo rapporto promosso dalla Fondazione Symbola, appena pubblicato, Io sono cultura 2020. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi, che coglie segnali di ripresa e di rivitalizzazione dei beni immateriali, a riprova che le attività che rientrano nella sfera culturale non sono opzionali, sono essenziali.

Se le contingenze ce ne allontanano, proviamo a considerare noi stessi come “unità culturali” che si difendono liberando la creatività individuale per affrontare questi tempi difficili; anche il benessere comune ne risulterà migliorato. Il significato nuovo e attuale di creatività deve scaturire dalla consapevolezza di quanto l’impasse del presente sia serio e dal trovare dentro di noi le energie atte a superarlo. Non si può materialmente? Spicchiamo un piccolo volo, e proviamo a comunicare in forma di linguaggio, di pensiero o di azione creativa, per arrivare, da soli o con altri, alla formulazione di una o di tante idee, compiendo un percorso che possa vedere trionfare, per dirla con Camus, invece di chi reprime, chi crea.

Secondo Sabino Acquaviva (Progettare la felicità, Laterza, 1994), già alla fine del secolo scorso, nelle società avanzate, ogni progetto politico doveva sempre più identificarsi con la felicità dei cittadini, primariamente legata alla soddisfazione dei bisogni concreti, per poi progressivamente spostarsi dalla mera crescita economica al conseguimento del “benessere”, concetto sul quale, da decenni, il dibattito è ancora aperto. Ma, se non esiste una univoca definizione del benessere individuale e sociale, abbiamo almeno chiaro cosa è per noi, in prima persona, la felicità? Riusciamo ad avere almeno un pensiero felice al giorno, fra i sessantamila che ci arrovellano?

Peter Pan caduti dalla culla a causa della fatale distrazione materna, traditi alla nascita, sospesi tra realtà e fantasia, fatichiamo già a stabilire cosa determini il benessere; decidere come accrescerlo diventa un’impresa ardua, ancor più complicata se come obiettivo ci poniamo non più solo il benessere misurabile in modo soggettivo, ma anche quello degli individui che compongono la nostra monade familiare e sociale. Una preoccupazione non elide l’altra, la raddoppia; proviamo dunque a recuperare un pensiero felice, perché solo i pensieri felici permettono di volare.

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