PALERMO – L’agenda delle nuove cose da fare, altro non è che l’elenco delle cose non fatte. Delle riforme fallite, per essere più precisi. Dei flop di questi due anni e mezzo di legislatura. Rosario Crocetta sceglie la strada di una serie di interviste “a media unificati” per lanciare un appello al suo partito: “Un nuovo patto per il rilancio della Sicilia”. L’ennesimo patto. Per la nuova svolta. La svolta continua.
Il problema è che, nel frattempo, manca uno degli attori principali, necessari per sostenere quel patto. Cioè il governatore stesso. Delegittimato dal suo partito, chiamato in causa da soggetti coinvolti in indagini della Procura, incapace di dare a questa esperienza di governo una forma, una “cifra”, un qualsiasi significato. E la prova è, come spesso accade, facilmente desumibile dai numeri e dalla breve storia di questo scorcio di parentesi governativa: 36 assessori in 30 mesi. Governi di tutti i tipi: quello dei creativi e quello delle segretarie, quello dello ‘strappo’ con i cuperliani e quello della pace che doveva finalmente imprimere una svolta. E invece, anche con l’ultimo esecutivo, il percorso è sempre lo stesso: dritto, verso il baratro.
Ma adesso c’è il nuovo patto, proposto da Crocetta. Che sa tanto di minestra “scongelata”. Legge sulla sburocratizzazione, testo unico sulle attività produttive, riforma dei rifiuti, dell’acqua e soprattutto delle Province. Riforme annunciate, in molti casi, già nel 2013.
Ma il governatore non c’è. O è come se non ci fosse mai stato. Come se, giusto per fare un solo esempio, non fosse stato proprio lui a dire, anche in quel caso attraendo il legittimo interesse dei media locali e nazionali, che “la Sicilia ha abolito le Province, prima Regione in Italia”. Oggi, invece, Crocetta parla ancora di interlocuzione necessarie con lo Stato, di un problema di esuberi ampiamente preventivabile, di funzioni ancora da distribuire, persino del diritto di formare nuovi consorzi o di permettere a qualche Comune di transitare verso un altro Consorzio, dopo un referendum che si è rivelato poco più che un pasticcio. Poche settimane dopo, infatti, la legge aveva già cambiato volto.
“La nuova agenda è solo un promemoria dei nostri fallimenti”, ha detto durante la direzione regionale il deputato del Pd Fabrizio Ferrandelli, che chiede di “staccare la spina” al governatore al più presto. Toni meno “definitivi” ma comunque a sostegno della stessa idea di fondo, quelli usati dal segretario regionale Fausto Raciti: “Temo siano finiti i tempi dei decaloghi e degli ultimatum. Ho paura che siamo già oltre”. E non potrebbe essere altrimenti. In tre anni, il governo regionale non ha concluso nulla. Ogni idea di riforma di settore è naufragata di fronte alla schizofrenia politica del governatore e di fronte al caos delle sue giunte. Le Province? Impantanate. La nuova legge della Formazione, cavallo di battaglia dell’ex assessore Scilabra? Non esiste ancora. La riforma dei rifiuti? L’unico risultato ottenuto in tre anni è quello di commissariamenti-fiume. La riforma dell’acqua pubblica, altro obiettivo del presidente in campagna elettorale? Siamo addirittura a un passo dal commissariamento dello Stato, visto che il governo Crocetta non è riuscito ancora a creare i nuovi ambiti territoriali.
Nulla. Questi primi tre anni sono stati scanditi dalle buone intenzioni. Che sono rimaste tali e quali. E se solo si fosse approvata una legge per ogni assessore sostituito, forse la Sicilia non sarebbe oggi nello stato di gravissimo ritardo col resto d’Italia e anche col Meridione, segnalato impietosamente dall’ultimo giudizio di parifica della Corte dei Conti. Magistrati contabili che hanno puntato l’indice proprio contro l’eccessivo turn-over (ed è chiaramente un eufemismo) di assessori e dirigenti generali. La prova concreta della totale assenza di una capacità di programmazione. Di un filo conduttore che attraversi questa esperienza di governo. La dimostrazione dell’impossibilità di raggiungere un qualsiasi risultato, seppur minimo. Nonostante il nuovo appello del presidente, che attecchisce tra nuovi e vecchi “simpatizzanti”, dal fedelissimo Beppe Lumia, al capogruppo Baldo Gucciardi all’ex segretario Giuseppe Lupo. Lo stesso che, da segretario appunto, chiese agli assessori Pd di uscire da quel governo guidato da un presidente che “faceva tutto da solo”. E sarebbe stato già qualcosa. Peccato che il presidente, da solo, finora è riuscito a non concludere nulla.
E, anzi, ha persino trasferito ai suoi governi il senso del fallimento. Se, infatti, fino ad alcuni mesi fa, era il presidente a nominare e cacciare (anche nell’arco di venti giorni, come nel caso di Piergiorgio Giarratana) i suoi assessori, sono adesso questi ultimi a fare le valigie e scappare a gambe levate da un’esperienza che è sempre di più un sinonimo di fallimento. E non solo. Le vicende legate ad esempio a Sicilia e-Servizi e, ancora di più, lo scandalo di Villa Sofia, ha minato profondamente l’ultimo elemento che consentiva al governatore di rivendicare una autorevolezza che adesso non c’è più. L’incantesimo si è rotto. Il presidente è in difficoltà anche sul piano “morale ed etico”, per usare le parole di Lucia Borsellino. Che ha citato non a caso, nella sua lettera di addio, il caso Tutino. La vicenda che ha messo in un angolo (sputtanato, qualcuno potrebbe dire) il presidente che sventolava il vessillo della legalità. E al quale è rimasto in mano, oggi, solo il consunto, sbiadito elenco dei fallimenti, da riproporre agli alleati.