Malagiustizia da Palermo a Firenze |Una catena di processi senza prove - Live Sicilia

Malagiustizia da Palermo a Firenze |Una catena di processi senza prove

Da Il Foglio. Da Palermo a Firenze, da Mannino a Palenzona, storie di ordinario mascariamento e di ordinaria malagiustizia. Ma all'ombra dell'impunità costruita dalla casta nei Palazzi di giustizia si sono radicati abusi di ogni sorta.

Ma verrà mai il giorno in cui, con scandalo e follia, il presidente della Repubblica griderà ai magistrati di ogni ordine e grado che non è più possibile intramare processi senza indizi né prove? Ci sarà mai una persona perbene, come Sergio Mattarella, maestro di Diritto costituzionale, in grado di annunciare urbi et orbi che finalmente saranno doverosamente puniti quei procuratori che, con grande spreco di soldi e di arroganza, hanno imbastito faldoni e fascicoli all’interno dei quali i giudici di merito non sono riusciti a trovare né un reato né il fumus di un reato? Riuscirà il molto onorevole Consiglio superiore della magistratura a convocare le procure di Firenze o di Palermo per chiedere quantomeno una spiegazione sulle ultime crocifissioni e sugli ultimi naufragi?

A Firenze, un procuratore a dir poco sbrigativo ha voluto attaccare il bollino mafioso a Fabrizio Palenzona, banchiere di prestigio, e pur di impiccarlo al palo della colpevolezza ha confezionato un voluminoso dossier di intercettazioni, prontamente consegnato ai giornali, con il quale ha sputtanato non solo Palenzona ma anche un imprenditore che non c’entrava nulla, marchiato addirittura come “braccio imprenditoriale” di Matteo Messina Denaro, sanguinario boss ancora latitante; oltre, ovviamente, a un nutrito stuolo di povericristi, tutti innocenti va da sé, ma finiti su quelle carte sporche di mafia solo per avere avuto la sventura di parlare al telefono con uno dei due presunti, molto presunti, protagonisti dell’improbabile affaire.

Bene: sul tavolo del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e sulla scrivania del procuratore generale della Cassazione, titolari dell’azione disciplinare, ci sono gli esposti sottoscritti dalle vittime occasionali di quest’ultima ingiustizia. Ora che il tribunale del Riesame ha raso al suolo la roboante inchiestona della procura fiorentina il Csm avrà la benevolenza di convocare a Palazzo dei Marescialli il dottor Giuseppe Creazzo, primo responsabile dell’indagine, per chiedergli conto e ragione di questo nuovo ed eclatante caso di mascariamento a carico di cittadini sui quali non c’era nemmeno il “fumus” di una compromissione?

Statene certi, non succederà. Perché, se mai succedesse, in soccorso di Creazzo arriverebbe immediatamente il dottor Rodolfo Sabelli, riverito presidente dell’Associazione nazionale magistrati, pronto a sostenere che questo governo, e dunque anche il ministro della Giustizia, piuttosto che occuparsi della lotta alla mafia preferisce dare addosso ai giudici e, in particolare, ai procuratori più esposti sul fronte della criminalità. Nient’altro che un luogo comune, come è evidente. Ma il dottor Sabelli sa che il suo modulo funziona: l’Anm, un sindacato al quale aderisce il novanta per cento di giudici e magistrati, nella messa cantata del grande dibattito sulla giustizia è sempre riuscita ad avere una altissima e rintronante voce in capitolo.

Non si muove foglia che l’Anm non voglia, si diceva una volta. Ed era anche vero. Ma oggi?

Oggi l’impunità dei magistrati che confezionano inchieste senza prove o che disinvoltamente sputtanano chi non c’entra niente – a volte per pigrizia, a volte per scempiaggine, spesso per un’ambizione di carriera o per una opportunità politica – appare sempre più un residuato bellico. Primo, perché gli avanguardisti del codice penale debbono pur fare i conti con migliaia di altri giudici, dislocati nelle varie sessioni di tribunale, che mal sopportano il protagonismo e le spregiudicatezze dei cosiddetti procuratori d’assalto. Secondo, perché all’ombra della impunità, costruita pietra sopra pietra dall’Anm, naturalmente con la sudditanza di una classe politica timida e compiacente, si sono radicati dentro i palazzi di giustizia abusi di ogni sorta. Anche le peggiori corruttele.

Se mai il dottor Sabelli volesse rivedere il proprio modulo, quello che prevede sempre e comunque la difesa dei magistrati, potrebbe fare in questi giorni una visitina in quel di Palermo, proprio nel Palazzo di giustizia che fu, fino al sacrificio finale, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per chiedersi come mai sia stato consumato, nelle stanze che avrebbero dovuto invece custodire la memoria di un martirio, il più immondo degli scandali: quello dei beni confiscati ai mafiosi. Patrimoni miliardari sottratti alle cosche sono diventati, stando alle pesantissime accuse della procura di Caltanissetta, terreno di profitto e di arricchimento per magistrati semplici e magistrati di alto rango, per parenti e clienti, per gli amici e per gli amici degli amici. Altro che antimafia. Sotto le arcate solenni del Tribunale e a ridosso della maestosa Corte d’appello si è radicata una sorta di cosca togata che, con la banalissima scusa della legalità, sequestrava palazzi e aziende ai boss della mafia, o presunti tali, per affidarli subito dopo in gestione, senza regole e senza obblighi, a una cerchia ristrettissima di avvocati e commercialisti di fiducia, molti con parcelle milionarie, ma soprattutto a figli e nipoti di alcuni papaveri del vasto mondo giudiziario, anche di quelli coperti dalla magnificenza dell’ermellino. Tutti zitti e tutti complici. Tutti reduci da questa o quell’altra manifestazione antimafia. Tutti in prima fila, a ogni scadenza, nel celebrare gli anniversari dei morti ammazzati nella tetra stagione delle stragi.

Venga, dottor Sabelli, venga a Palermo. E si chieda in quale altro palazzo di giustizia possa succedere un caso come quello dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino inseguito per ventidue anni da un pubblico ministero che, senza soluzione di continuità, ha sostenuto l’accusa in primo grado, in secondo grado, fino al rito abbreviato del terzo processo: quello sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra. L’altro ieri Mannino è stato assolto per la terza volta ma i pubblici ministeri, che ora temono per la sorte del troncone principale del processo, quello che si celebra con rito ordinario presso la Corte d’assise, non intendono in alcun modo mollare la preda e vagheggiano addirittura la possibilità di appellare la sentenza.

Fin dove potrà arrivare il calvario di un imputato? Non le viene il sospetto che l’eccesso di giustizia possa essere già mala giustizia? Comunque si concluda la sua ipotetica visita al tribunale di Palermo sappia, dottor Sabelli, che certi comportamenti – al di là delle responsabilità penali tutte da accertare, si dice sempre così – hanno già provocato un danno enorme: hanno sporcato, in maniera indelebile, una parola alla quale la morte di Falcone e Borsellino aveva conferito un’aureola di sacralità: la parola antimafia.

Ventitré anni fa, nei giorni del pianto collettivo per i due eroi massacrati dal tritolo mafioso, Palermo sembrava volersi dare – non senza fatiche, non senza contraddizioni – una coscienza civile. Oggi, oltre ai roghi della monnezza, divampano pure i fuochi dell’indifferenza e della delusione. Se nemmeno i giudici antimafia, quelli scortati ventiquattr’ore su ventiquattro, hanno saputo resistere alla tentazione di lucrare e di traccheggiare, come l’ultimo dei mafiosi, quale fiducia potrà avere questa città, infelice e disperata, nella giustizia? Se uno, due o tre pubblici ministeri inchiodano per ventidue anni un imputato alla croce di una inafferrabile collusione mafiosa e poi si scopre che non c’erano le prove necessarie, con quale senso del pudore quei magistrati andranno nelle scuole per insegnare ai ragazzi e ai bambinetti che la legge è uguale per tutti?

Venga, dottor Sabelli, venga a Palermo.

 

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