PALERMO – “La cattura di Messina Denaro è un punto ma non segna la fine, piuttosto un inizio. Certamente è un evento che doveva accadere perché non era tollerabile che si pensasse che esistono impunità lunghe decenni”. Lo ha detto il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia intervenendo a una iniziativa organizzata da Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato per il 45esimo anniversario dell’omicidio del giornalista e militante di Dp Peppino Impastato, ucciso dalla mafia a Cinisi il 9 maggio del 1978.
“Premessa l’importanza che la cattura di Messina Denaro ha – ha aggiunto – è bene precisare che in questi 30 anni non è che non sia stato fatto nulla: i boss, soprattutto corleonesi, sono stati arrestati e condannati e certamente è stato indebolita l’ala militare dell’organizzazione mafiosa che comunque indirettamente dà forza alla cosiddetta alta mafia che non esiste senza la violenza”. De Lucia è poi tornato a parlare della cosiddetta “borghesia mafiosa”, quella parte della società “cresciuta in un rapporto insano con la mafia e abituata a risolvere i propri problemi rivolgendosi al boss con cui aveva un rapporto di mutuo riconoscimento”.
“Cosa che – ha concluso – accade pure ora che il mafioso è in difficoltà. E questa ricerca del dialogo di fatto rafforza la mafia”.
“Impossibile perseguire un intero paese”
“Ci sono due livelli: quello di chi ha contribuito alla latitanza di Matteo Messina Denaro e quello dei tanti che non possono non avere visto uno che stava a Campobello di Mazara da anni. Noi magistrati perseguiamo chi lo ha aiutato, non possiamo certo perseguire un paese che ha fatto finita di non vedere. Ciò non toglie che questo sia un enorme problema civile”, ha aggiunto il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia.
“Le relazioni che esistono tra il mondo dello Stato e quello delle mafie – ha proseguito – sono complesse da sempre”. De Lucia, rispondendo a una domanda, ha poi affondato la questione dei rapporti tra la polizia giudiziaria e i cosiddetti confidenti. “Soprattutto negli anni di Peppino Impastato c’era una sorta di scambio sommerso tra le due parti e quei rapporti assolutamente irrilevanti penalmente a volte rischiavano di tradursi in favori per la mafia”, ha spiegato.
“Le cose cambiano – ha proseguito – quando le indagini contro la mafia le fanno i magistrati come Chinnici e Falcone e allora i confidenti che facevano fare le carriere ma non i processi diventano collaboratori di giustizia e lì cambia il mondo perché c’è un testimone che guarda in faccia la mafia in un’aula di giustizia e racconta quel che sa davanti a un giudice”.
“E allora – ha concluso – il rapporto non è più tra carabiniere o poliziotto e il confidente ma c’è la gestione dei magistrati che consente processi e condanne”.
Mafia, Stato e tecnologia
“Il mondo della tecnologia va avanti così velocemente che non solo non dobbiamo disinvestire nel settore ma anzi dobbiamo adeguarci ai tempi che cambiano. Ora combattiamo con organizzazioni mafiose che usano piattaforme criptate, perciò lo sforzo dello Stato ma potenziato”, ha poi detto il procuratore di Palermo.
Tra gli strumenti irrinunciabili nel contrasto a Cosa nostra, de Lucia, oltre alle intercettazioni, ha citato il 41 bis “che va applicato ai capi per far sì che smettano di comandare e avere rapporti con l’esterno come accadeva ai tempi del Grand Hotel Ucciardone e per il tempo necessario e la salvaguardia dei collaboratori di giustizia”.
Il ricordo di Peppino Impastato
“Questo Paese – ha concluso De Lucia – ha tante cose che non vanno ma ha ha avuto anche eroi civili, che non dobbiamo dimenticare, persone che hanno dato sacrificato la loro vita nonostante avrebbero potuto fare un’altra scelta. Alludo ad esempio a Peppino Impastato e Umberto Ambrsoli, due persone lontane anni luce per formazione e convinzioni politiche, uccise perchè coltivano lo stesso ideale di liberazione dalla mafia”.