C’era una volta la Dc. E anche dopo, quando la Dc non c’era più, c’erano comunque i democristiani. Tanti, in Sicilia. Con una certezza: uno di loro lo trovavi sempre a Palazzo d’Orleans. Per cinquant’anni ha funzionato così, con poche brevi eccezioni. Parentesi che complessivamente sono durate meno di sei anni (il liberale Martino, il forzista ex Psi Provenzano, il diessino Capodicasa più il breve interregno di Gaetano Giuliano dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella): sei contro 44 anni 44, in cui il presidente della Regione siciliana è sempre stato un uomo cresciuto a pane e Dc. Come i due governatori che si sono avvicendati da quando esiste l’elezione diretta, Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, due politici assai diversi accomunati però dagli anni trascorsi all’ombra dello Scudo Crociato.
In queste elezioni regionali, però, l’onda lunga dei democristiani si infrange. E clamorosamente nessuno dei candidati in corsa per Palazzo d’Orleans, almeno tra i big, proviene da quella tradizione politica. Un segno dei tempi che nella Sicilia bianchissima, eterno granaio di voti democristiani, fa forse una certa impressione. Non solo perché il prossimo inquilino di Palazzo d’Orleans non sarà un ex Dc, ma anche perché ai sopravvissuti della diaspora democristiana in queste elezioni tocca un ruolo se non di comparsa almeno di spalla, con gli eredi del partito di De Gasperi divisi un po’ di qua e un po’ di là costretti a baciare il rospo di un candidato ben lontano dalla loro tradizione politica.
Accade così all’Udc di Gianpiero D’Alia, che ha incoronato Rosario Crocetta candidato. Senza scomodare l’omosessualità dichiarata dell’ex sindaco di Gela, forse mal digerita da una minoranza di elettorato clerical-reazionario e tirata in ballo a sproposito da qualche maldestro avversario politico, è innegabile che la storia politica di Crocetta, comunista di lunghissimo corso, non sia esattamente vicina a quella dei Dc. E i sondaggi, fin quando è stato possibile pubblicarli, confermavano qualche difficoltà dell’elettorato Udc a sposare la causa di Crocetta, malgrado gli sforzi dei leader del partito, come Rocco Buttiglione, che si sono dati da fare per rappresentare la piena sintonia col candidato (peraltro cattolico) presidente. E non è un segreto che gli ex democristiani del Pd, ossia la corrente Innovazioni, avrebbero preferito quest’estate un’altra soluzione, magari la candidatura del leader centrista D’Alia. Ma la storia ha preso un’altra piega.
Anche ai cugini separati del Cantiere Popolare, in realtà, è toccata una sorte simile. Perché malgrado i proclami d’amore verso il gentleman Nello Musumeci, non c’è dubbio che il candidato del centrodestra porti una targa che non è quella della Dc e che la sua storia politica sia ben lontana dalla democristianità. Non solo quella passata, legata ai tempi del Msi, ma anche quella odierna, che lo vede esponente di punta di un partito, La Destra, che porta la fiaccola sul simbolo e il cui leader Francesco Storace definiva qualche settimana fa fa l’8 settembre “la morte della patria”. Ed è stato lo stesso Musumeci, in un momento concitato della campagna elettorale a rivendicare con orgoglio di non essere mai stato “sotto la gonna puzzolente della Democrazia Cristiana”. Alla maleodorante ma efficace metafora, nessun democristiano di centrodestra (inclusi diversi big del Pdl) ha sentito la necessità di replicare alcunché, mantenendo un silenzio disciplinato volto a non disturbare il manovratore. I tempi cambiano. E le certezze evaporano. Prendete il Cantiere Popolare di Romano: sui giornali li chiamano ancora oggi i “cuffariani”. Viene fuori che il fratello di Totò Cuffaro, Silvio, farebbe campagna elettorale per il Pdl, e che l’ex “cerchio magico” dell’ex governatore si sia disperso dappertutto, lasciando a Romano e ai suoi le briciole del pacchetto di voti di Totò.
Democristiani in seconda linea, dunque. Nel polo autonomista che sostiene Gianfranco Miccichè se ne trovano diversi, ma tutti, più o meno, rivendicano un profilo di rottura con i partiti nazionali, leit motiv della campagna elettorale miccicheiana, guardando più a Silvio Milazzo che a don Sturzo.
Siamo, insomma, al viale del tramonto per la gioia dei duri e puri del “non moriremo democristiani”? Difficile a dirsi. Se ne capirà di più il 29 ottobre. Quando i siciliani conosceranno il nome del presidente a cui toccherà governare senza una maggioranza all’Ars. Sarà allora che l’antica e democristianissima arte del compromesso potrà tornare più utile che mai. Ridando smalto, forse, ai siculi eredi di mamma Diccì. Se i grillini permetteranno.