PALERMO – L’allarme suonò per la terza volta nel 2015. Salvatore Sorrentino doveva morire. Le microspie hanno registrato le fibrillazioni successive alle dichiarazioni di un pentito. Le tensioni di quei giorni sono confluite in un’informativa dei carabinieri del Nucleo investigativo depositata nelle scorse settimane dalla Procura della Repubblica di Palermo nel processo alla nuova cupola di Cosa Nostra.
Fu Vito Galatolo, ex boss dell’Acquasanta, a ricordare il progetto di morte che coinvolgeva Sorrentino, soprannominato lo studentino, braccio destro di Settimo Mineo, capomafia di Pagliarelli, il boss che presiedeva la nuova commissione provinciale azzerata con un blitz di dine 2018.
Nel 2007 il collaboratore di giustizia Antonino Nuccio raccontò che “dopo l’omicidio Iingarao (Nicola Ingarao, boss di Porta Nuova ndr) ricordo che Paolo Di Piazza mi aveva parlato del progetto omicidiario in danno di Michele Oliveri, uomo di fiducia di Nino Rotolo il quale aveva messo in giro la voce che Sandro Lo Piccolo, non appena fosse stato arrestato, si sarebbe subito pentito. Sorrentino per paura di essere ucciso si era schierato con i Lo Piccolo”.
Era tutto pronto, Oliveri, anziano boss del Villaggio santa Rosalia, doveva essere attirato in trappola facendogli credere di essere stato convocato dai poliziotti per un controllo. Stessa cosa fu confermata in quell’anno da un altro pentito, Francesco Franzese, del clan di San Lorenzo.
Nel 2015 le nuove rivelazioni di Galatolo. Il 7 febbraio i carabinieri si presentarono in carcere per avvisare Sorrentino. Due giorni dopo il boss era al colloquio con la moglie. Le raccontò tutto e la incaricò di mettere al corrente Mineo. Doveva farlo subito, senza neppure aspettare l’ormai imminente scarcerazione di Sorrentino per fine pena.
Il mafioso spiegava alla moglie Emanuela che “io mi sto facendo la doccia, sono nella stanza e mi chiama … dice: Sorrentino, capo-posto, matricola. Minchia ho detto. Che cornuti”. La comunicazione era urgente: “… siamo stati delegati… dalla Procura… c’è stato un collaboratore che ha parlato ci lei”. Sorrentino non si era scomposto. Innanzitutto aveva rifiutato la protezione dello Stato: “… gli ho detto… se ne vada… non ho niente a che dividere con nessuno. Di queste minchiate non m’interessa niente… andassero a buttare il sangue, lui, la sua famiglia e tutti quanto sono… gli ho detto… buongiorno e buonasera… gli ho detto sono di una serenità d’animo unica e sola… perché non m’interessa di queste chiacchiere… dice: no… perché lei deve uscire… non ho mai avuto problemi con nessuno. Capito?”.
Sorrentino rifiutò la protezione dello Stato e cercò subito quella del capomafia: “… ma tu l’hai visto lo… zio?… tu più tardi lo vedi?”. “Se voglio sì”, rispondeva la moglie. Lo zio è il soprannome con il quale a Pagliarelli chiamano Settimo Mineo. La moglie doveva riferirgli che “come solito (il marito ndr) li ha mandati a fare in culo… già è la terza volta… come le altre due volte, stavolta, dice, s’è messo bello calmo”.
La conferma che fosse Mineo la persona di cui marito e moglie stavano parlando si ebbe il pomeriggio del 9 febbraio quando la moglie di Sorrentino si recò alla gioielleria dell’anziano capomafia in corso Tukory.
Un anno dopo, nel 2016, lo stesso Mineo tornò a parlare dell’argomento con Matteo Maniscalco. Oliveri, vecchio e malato, aveva perso lucidità. Era inutile che Sorrentino, ormai libero, lo incontrasse per chiarire la vicenda. Ormai era acqua passata. Sorrentino era stato perdonato. Nel 2018 i carabinieri lo hanno arrestato. Faceva parte della nuova mafia. Era il braccio destro di Mineo. La protezione dell’anziano capomafia gli era servita.