Dimenticare Lucia. Ecco l’ultima parola d’ordine di una politica che ha cucito la trama di un patto scellerato. Dimenticare Lucia e la sua cristallina lettera di dimissioni in cui è stato sviscerato il baraccone della sanità siciliana, col suo tanfo di pozzo nero.
Dimenticare Manfredi Borsellino, la sua appassionata orazione civile al cospetto di Sergio Mattarella: “Non entro, non posso entrare vista anche la mansione che ricopro e l’amministrazione cui appartengo, nel merito delle indiscrezioni giornalistiche di questi giorni, indiscrezioni che avranno turbato probabilmente molti di voi, ma vi assicuro non l’interessata, mia sorella Lucia, perché consapevole e da tempo, del clima di ostilità in cui operava e delle offese che le venivano rivolte per adempire nient’altro che al suo dovere”.
Altro che la ‘celebre intercettazione’, sbandierata da ‘L’Espresso’ e seccamente smentita dalle Procure: il supremo paravento con cui il Crocettismo tenta di rimuovere le sue vere colpe, addossando a quella diceria le cause di una tragedia siciliana che ha come unico mandante ed esecutore un presidente politicamente impresentabile.
Dimenticare le parole dell’ex assessore alla Salute: “Fin dal primo giorno ho avuto ben chiaro che nei miei confronti c’era un clima di ostilità e di diffidenza. Accadevano cose alle mie spalle delle quali il presidente non mi ha detto”. (…) “Ho deciso di interrompere questa esperienza definitivamente quando ho avvertito la grande distanza che vi era tra me e le reazioni pubblicamente rese dal presidente di fronte all’arresto del dottor Tutino, volte a minimizzare quanto accaduto”.
Dimenticare Lucia. E subito. Mandarla via dal palcoscenico, rimuoverla, perché non serve più. Perché il suo caro nome potrebbe perfino creare imbarazzo nel momento in cui questa politica siciliana di ghiottoni e impudenti si appresta a celebrare l’apoteosi del suo cavaliere smacchiato: Saro Crocetta da Gela, glorificato dal martirio di un colloquio-fantasma e perciò pronto a tornare in sella con l’arroganza delle sue stimmate.
Dimenticare Lucia, regalarle una carezza avvelenata, esibendo salamelecchi e complimenti. Ha cominciato Antonio Ingroia, con una intervista al ‘Corriere’, con una carezzina che sgomenta proprio per il tempismo. Antonio, l’amico di famiglia, “l’allievo prediletto di Paolo”, ha detto a Giovanni Bianconi: “ Per Lucia Borsellino provo ovviamente grande affetto, ma sinceramente penso che non sarebbe dovuta entrare nella giunta di Crocetta; con un cognome così pesante il rischio di essere strumentalizzata era reale. Quando il governatore mi chiese di fare il suo vice io rifiutai…”. Ovviamente – e ci mancherebbe – i colpi meglio assestati sono sempre conditi da ‘grande affetto’, da un’emozione così nobile e soffocante per il malcapitato che ne sia, suo malgrado, bersaglio. Ma il cognome Ingroia che peso ha? Non c’è rischio di strumentalizzazione per uno che fu pure scintillante pm sulle trincee dell’antimafia, ora accasato – grazie alla magnanimità di Saro – nelle periferie del sottogoverno?
Dato lo squillo di tromba, hanno continuato gli altri: tutti protagonisti della pantomima parlamentare che ha garantito il salvacondotto presidenziale, in nome della comune sopravvivenza. Una tendenza alla rimozione freudianamente sintetizzata da Antonello Cracolici: “Vorrei iniziare con un grazie a Lucia Borsellino, alla sua sobrietà e alla sua competenza, e per averci tirato fuori da una condizione della Sanità che pochi anni fa era tremenda. Ed è un grazie politico perché a causa delle sue dimissioni il partito ha potuto assumersi la responsabilità di continuare il suo lavoro, mettendoci la faccia”. Ecco il punto essenziale: “continuare il lavoro”; trattare la figlia di Paolo come una sventatella, un’ingenua ammaliata e infine inghiottita da una suggestione più grande di lei.
Certo, le ingenuità ci sono state. Ed errori, a cominciare dall’ingresso alla corte dei miracoli del Crocettismo, come abbiamo scritto in giorni insospettabili. Ma Lucia Borsellino non è un soprammobile che si può liquidare con quattro battute e un buffetto sulla guancia. Invece, gli stessi che le si professavano amici, ora abbandonano alla deriva la trasparenza con cui l’ex assessore ha svelato l’inganno. Dimenticano la sua dignità, le sue parole e quelle di Manfredi. Tralasciano l’abbraccio commosso con il Capo dello Stato e le intercettazioni vere, verissime, tra dileggio e sfottò. Sono cosucce che non contano più. Come non conta più l’antimafia che il nome di Lucia evocava e rappresentava. Tutto ingoiato, tutto dimenticato. Perché siamo già nell’ora del “lavoraccio” che ha pur da continuare.
Nel teatrino, come al solito, il ruolo del mattatore l’ha interpretato Saro. Il quale, fra tante sceneggiate all’Ars o in tv, ha accuratamente evitato di rammentare le parole di fuoco di Lucia. L’ha tirata in ballo solo alla fine delle recite, per costruire un bluff che seppellisse la denuncia politica: “Le dimissioni di Lucia Borsellino? Sicuramente sulla sua decisione avrà pesato il falso dossier dell’Espresso che qualcuno le ha fatto vedere. Qualcuno ha fatto un danno terribile a Lucia Borsellino e ai suoi familiari utilizzando non a caso questa falsa intercettazione dell’Espresso proprio alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio”. Il governatore col gusto del teatralità ormai sa bene che per rimanere a galla non serve il vero, ma l’effetto speciale, l’unico strumento rimasto per nascondere la realtà di un fallimento.
Eppure, il motivo di una dolorosa rinuncia l’aveva già spiegato, per filo e per segno, il dottore Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, commissario di polizia: “Mi si lasci dire che non sarà la veridicità o autenticità del contenuto di una singola intercettazione a impedire che i siciliani onesti, che mi sforzo a ritenere rappresentino ancora la maggioranza in questa terra disgraziata, sappiano lo scenario drammatico in cui mia sorella si è ritrovata a operare in questi anni di guida di uno dei rami più delicati dell’amministrazione regionale”. Dimenticare Lucia. E sotto con una nuova pratica nella politica delle impudenze e delle ghiottonerie.