Dire addio a Leoluca - Live Sicilia

Dire addio a Leoluca

I lettori di Livesicilia e Orlando
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3 min di lettura

Il “SinnacOllanno” continua a dividere. E’ bastato il racconto di una storia – la favola triste del condannato Joe O’ Dell – per riattizzare la contrapposizione tra amanti e odiatori. Non c’è mediazione che tenga: i giudizi sono draconiani. Ottimo o pessimo, con qualche punta di moderazione. E’ che Palermo non ha mai risolto il rapporto con questo suo padre nobile e ingombrante. E’ rimasta traumatizzata dai cingolati del passaggio orlandiano. Dopo, boccheggiando, la città ha desiderato un sindaco di basso profilo e l’ha votato. Tardi si è accorta della clamorosa svalutazione.  Il prescelto non era nemmeno un sindaco.  L’errore è dipeso proprio dall’antico e ruvido sfregamento emozionale con la figura di Leoluca Orlando detto Luca. Ci siamo svegliati dopo una sbronza colossale di Europa, di antimafia, di sogni e di cultura. Era naturale andare a sbattere.
Il lato tragicomico è nella probabile ripetizione. Ci infrangeremo di nuovo contro qualche parete liscia,  senza prima aver risolto la natura del nostro legame psicologico con l’era orlandiana, col Leoluca padrone della nostra speranza, legittimo spacciatore di svolte e grandezza, fantasma che di tanto in tanto ritorna.

Il finale è evidente. Il “SinnacOllanno” non  ha cambiato Palermo. La sua rivoluzione si è arenata, per un errore capitale che è anche una caratteristica del’uomo: l’egocentrismo. Leoluca Orlando non ha preparato il ricambio, non ha permesso che una buona classe dirigente studiasse per la successione. Ferocemente, ha decapitato ogni possibile delfino. Un re senza erede prepara il suo reame a un futuro grigio. La rivolta orlandiana ha indicato la strada,  non ha saputo percorrerla fino in fondo. Ha meritoriamente ricusato la “natura per forza mafiosa” della capitale che ha amministrato, ha disegnato un avvenire senza padrini. Tuttavia, nonostante i magnifici orizzonti segnati a dito, i conti nel quotidiano, a un certo punto, non sono tornati più. La linea del sogno – specialmente nell’ultima parte del mandato complessivo – si è identificata con una pallida linea di galleggiamento, in un clima di crespuscolo da basso impero. Palermo è stata straziata da una realtà schizofrenica, contesa tra la scenografia di eventi mondiali e le quinte di un mondo putrefatto. Abbiamo capito – era il motto di una rassegnata fatalità -: non è mutazione, è maquillage, è cipria sul volto di un cadavere. Ecco perché non abbiamo creduto più alle promesse che alzavano la posta in proporzione inversa col precipitare di ogni cosa verso il suolo.

Eppure, nel bene o nel male, la stagione di Orlando è stata l’estate, non la primavera, il canto di cicala della nostra dignità. Per la prima volta, i palermitani hanno pensato al miglioramento, alla diversità possibile. Si sono smarriti nel vagheggiamento di una verità capovolta rispetto al passato. E ci sono stati fermenti che hanno corroborato la felicità pazzesca di una salvezza finalmente a portata di mano. La trama di Orlando si è limitata alla visione onirica di una Palermo celeste e irrealizzabile, dicono i suoi detrattori. In essa è annegata.  Non è già un titolo di merito?

Quella stagione, nel bene e nel male, fu migliore di questa, rassegnata, sporca e umiliata. Qualcuno può affermare serenamente il contrario? Migliore – con tutte le sue macroscopiche pecche – nei fatti, non solo nelle promesse. Ma è una stagione finita. Non tornerà, nelle sue forme e nei suoi riti.  Ricercarla, uguale,  con gli stessi protagonisti sarebbe un secondo errore, più deleterio della rielezione di  Cammarata. Se svolta sarà, un giorno, non avrà più il viso e le parole del “SinnacOllanno”.
E la città di Palermo, che odia sempre ciò che un tempo ha amato per inconsolabile e incongrua doglianza, riuscirà mai a farsene una ragione?


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