PALERMO– A un certo punto della chiacchierata, c’è stato un rapido sbalzo di temperature nel cuore della dottoressa Donatella Costanzo. Prima, un sorriso boreale a filo di labbra, poi un accenno di lacrime autunnali dalle ciglia. Succede quando fai un lavoro – in questo caso indossare il camice del medico – che ti ha preso l’anima. Perché sei uno, non due. E quello che fai coincide sempre con quello che sei.
In questo viaggio – che, al momento, si conclude – nella sanità siciliana, abbiamo incontrato stagioni in mutazione. Il medico che prova un dolore che non può esprimere. L’infermiere che sa sorridere e infondere fiducia. E, successivamente, a parti invertite. Il burbero. Il dialogante. Il comprensivo. L’ansioso. Tutte persone fedeli alla propria missione, senza angoli di protezione per i lavativi e gli arroganti. Siamo stati fortunati? Forse. Oppure i camici bianchi sono migliori dell’idea che ne ha la gente.
Donatella Costanzo, dottoressa arrivata da una settimana al pronto soccorso di Villa Sofia, è una migrante al contrario. E’ tornata per amore da Torino. E non andrà più via. “Si sono qui per amore – racconta lei -. Per amore della mia famiglia che è qui e della mia terra, della mia Palermo”. Ci riflette: “Anche senza la famiglia sarei tornata lo stesso”.
Perché dottoressa? Stava, appunto, a Torino, al San Giovanni Bosco, pronto soccorso all’avanguardia e di prima qualità; Villa Sofia non è da meno in quanto a capitale umano, ma il contesto non aiuta. La risposta giunge senza tentennamenti: “Perché mi è sembrato giusto, dopo tredici anni in Piemonte, venire a dare una mano qui, nella mia Sicilia. Gli amici me lo ripetono: ‘ma chi te l’ha fatto fare’. Io sono fiduciosa del contributo che posso fornire insieme ai colleghi che mi hanno subito messa a mio agio”.
Intorno è il solito giorno di trincea. Un ragazzo, visibilmente scosso, chiede con insistenza di essere visitato. Un uomo anziano si lamenta su una barella. E’ la difficile normalità del dolore, solo chi la attraversa riesce a capirla.
La dottoressa Donatella conserva, nonostante una grande esperienza, l’entusiasmo della recluta. Racconta dei pianti che “i colleghi di lassù si sono fatti”, quando lei è andata via. Spiega la differenza: “I compiti sono gli stessi, solo che qui siamo di meno e il carico di lavoro è maggiore”. Sorride di nuovo, la dottoressa ed è un sorriso che serve, perché in trincea il morale delle truppe è sul chi vive. Un medico sconsolato: “Oggi sono tanti i pazienti che stiamo curando, quando si cominciano ad ammucchiare le barelle nei corridoi sono troppi”. Nessuno si risparmia. Il primario, Aurelio Puleo, è al suo posto nonostante sia afflitto da qualche acciacco in via di risoluzione.
Donatella ricorda quando, a Torino, ha salvato un ragazzo di 17 anni: “Gli avevano dato un codice verde e avrebbe aspettato fino all’arresto cardiaco. Mi sono accorta che aveva un problema serio al torace, sono intervenuta subito. E’ stato bello rivederlo in piedi il giorno dopo”.
“E’ bello salvare una vita”, aveva raccontato il dottore Enzo Trapani del Civico. L’infermiera ‘Serena’, che non si chiama così, aveva narrato della sua esperienza senza più il compagno, infermiere come lei. Tutti, in questo viaggio, hanno lasciato trasparire quanto sia difficile essere fragili, se sei tu il santo che salva gli altri.
“Vuole scattarmi una foto? Aspetti che metto il rossetto”. Si alza la Donatella, dottoressa, migrante al contrario. E c’è una piccola lacrima tra le ciglia. Nostalgia? Felicità? Amore, comunque sia.
Le altre puntate
Il pugno, la bambina, la malattia
“Ma che bello salvare una vita” (LEGGI)
L’infermiera Rita, l’ictus, la paura
“Pochi giorni dopo ero in corsia” (LEGGI)
Tanina e il suo cuore in ambulanza
“Quella bimba nata tra le mie mani” (LEGGI)
Civico, la violenza e la speranza
“Ho rifiutato la sicurezza, resto” (LEGGI)