E liberaci dalla peste, | liberaci da noi stessi - Live Sicilia

E liberaci dalla peste, | liberaci da noi stessi

Il festino di Palermo
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C’è in rete un filmato di Beppe Grillo a Palermo. E’ un comico eppure dice ai palermitani presenti in sala, con tono di accorato rimprovero: “Ah, ridete pure, eh”. Già, il confine della risata l’abbiamo superato. Abbiamo oltrepassato la consolazione del grottesco. Abbiamo doppiato l’asticella dell’indecenza. Oggi possiamo solo congiungere le mani, piegare il ginocchio e – in occasione del Festino – pregare:  Santuzza, liberaci dalla peste.

Anni fa, giovane cronista, venivo immancabilmente inviato nel cuore della commozione popolare ogni 14 e 15 luglio. La domanda marzullesca da porre ai concittadini in transito verso la prossima oasi di semenza era: che cos’è la peste di Palermo? Ognuno indicava un male diverso. La politica, l’acqua assente nei rubinetti deserti, la sporcizia, la derisione del lavoro che non c’è. E tutti pensavano di vivere dalla parte della luce e della ragione. Erano sicuri di non appartenere alla peste. Per questo la pietosa Santuzza li avrebbe salvati. Perché loro erano figli della luce. Tutti noi palermitani ci sentiamo diversi, “altro”, rispetto al tumore in metastasi che uccide la nostra città. Però, all’occorrenza, diamo il voto di favore, cerchiamo o garantiamo la raccomandazione, buttiamo il sacchetto della munnizza fuori orario, sporchiamo, posteggiamo nei posti dei disabili. Ci muoviamo – dal piccolo al grande – in una trama di peccato laico. Solo che consideriamo le nostre azioni, con indulgenza, errori momentanei, eccezioni. Sono gli altri che sbagliano. Noi siamo puri. Ridete, eh, direbbe Beppe Grillo col suo sogghigno da comico incattivito. I comici non sanno più ridere.  Poi aggiungerebbe: guardatevi meglio allo specchio, gente di Palermo, gli altri siete voi. E noi lo applaudiremmo, nonostante il cocente sberleffo. Ci lasciamo fustigare con piacere masochista dai forestieri civilizzati. Invece, non sopportiamo che un altro palermitano, compagno e gemello di fanghiglia e trincea, urli la verità che non sappiamo confessare e che, nell’ora del Festino, si sintetizza così: la peste siamo noi.

Noi, spesso, siamo il gonfiore osceno, la putrefazione. Noi siamo il calcolo andato a male. Abbiamo annusato il sogno della Primavera. Ci hanno ammazzato due magistrati sotto casa. La nostra rabbia è durata un attimo. L’abbiamo persa. Abbiamo smarrito le poche cognizioni collettive di mutamento. Stasera, se qualche altro giovane cronista ci chiederà che cos’è la peste di Palermo, noi risponderemo: la munnizza, la politica, Cammarata. E non confesseremo che ci siamo abituati alla visione di una città esecrabile da topi. C’è la giusta convenienza, se si vuole. Vivendo con i topi, gli uomini possono consentirsi di essere immorali e cinici.

Ci libererà mai dalla peste di noi stessi la Santuzza? E perché dovrebbe, visto che siamo affezionati alla nostra malattia? Non c’è mai passato per la testa di guarire completamente. Da sani si hanno responsabilità e fastidiose promesse da mantenere. Ci interessa la comoda andatura delle zoppo. Ci piace. E se poi arriva il Beppe Grillo di turno e ci strappa di mano le stampelle, potremo sempre lamentarci e piangere. I comici, al contrario dei santi, sono cattivi.


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