Non ha esitato a rivolgersi ai carabinieri. Francesco Lena è uno dei due imprenditori che hanno denunciato gli uomini del pizzo del mandamento di San Mauro Castelverde. In particolare, sarebbe stato il figlio di Mico Farinella, Giuseppe, ad avanzare la richiesta estorsiva per l’Abbazia di Santa Anastasia, poco dopo che il bene era stato dissequestrato e riconsegnato. Lena lo ha allontanato in maniera energica, e poi si è rivolto ai carabinieri.
L’accusa di tentata estorsione ai danni dell’imprenditore è contestata a Giuseppe Farinella, Francesco Rizzuto e Giuseppe Scialabba. Due anni fa erano andati a casa di Lena. Bussarono alla porta. Non avevano buone intenzioni: “… tu gli dai un timpuluni ed io gli scippo la testa…”. “Ma lei non lo conosce il padre?”, disse Scialabba in riferimento a Mico Farinella, papà di Giuseppe.
Giuseppe Farinella sarebbe stato più esplicito: “Lei non ha avuto mai rapporti con mio padre?”. “No”, fu la secca risposta di Lena che sapeva bene invece chi fossero le persone con cui stava parlando. E andò a raccontarlo ai carabinieri. Sempre Lena ha riferito un episodio datato nel tempo. Anni fa aveva subito una prima estorsione in occasione dell’acquisto di 260 ettari di terreno a Castelbuono pagati 1 miliardo e 200 milioni di lire. Prima della stipula dell’atto il venditore gli aveva detto che c’era da pagare un ulteriore 3% sul prezzo finale. I soldi erano per il vecchio boss, Peppino Farinella, deceduto tre anni fa. E servivano per “vivere tranquilli”.
L’ultraottantenne Lena, patron della tenuta di Castelbuono, originario di San Giuseppe Jato anni fa era stato pure arrestato con l’accusa di essere un prestanome dei mafiosi, un riciclatore di soldi sporchi per conto dei clan. Il processo penale si è concluso con l’assoluzione ormai definitiva. Su proposta della Procura gli furono sequestrati i beni dal colelgio delle Misure di prevenzione del Tribunale, allora presieduto da Silvana Saguto, oggi sotto processo e radiata dalla magistratura. Due anni fa il tribunale gli ha restituito l’intero patrimonio. La procura di Palermo ha fatto ricorso in appello contro la restituzione.
Il nome di Lena era stato associato a boss del calibro di Bernardo Provenzano (secondo l’accusa, il defunto padrino corleonese era il vero proprietario dell’Abbazia), Salvatore Lo Piccolo, Nino Madonia e Antonino Rotolo. Si partiva da alcune intercettazioni in cui i boss parlavano di favori resi da Lena. Secondo il collegio, però, “non è possibile comprendere in cosa sia consistito il favore”, né i pentiti hanno saputo aggiungere ulteriori elementi.
“I dati rassegnati dai periti, pur evidenziando anomalie contabili e il fatto che Lena abbia disposto di denaro contante la cui tracciabilità non può affermarsi – scrivevano i giudici –, non consentono di confermare la prospettata appartenenza a un’associazione di tipo mafioso”. Anomalo era stato considerato il pagamento in contanti di 10 miliardi di lire da parte dei padri rogazionisti all’impresa di Lena, “ma non vi sono elementi per per assumere la provenienza illecita. Né sulla base dei dati contabili può affermarsi che le attività imprenditoriali di Lena abbiano tratto vantaggio da rapporti da lui intrattenuti con l’organizzazione criminale”. Insomma, la mafia non c’entrava.
Dell’Abbazia, che comprende una tenuta e un hotel di lusso, si è parlato anche nello scandalo che ha travolto Saguto. Sotto processo a Caltanissetta c’è anche l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, indagata per concussione in concorso con Saguto. Saguto avrebbe imposto all’amministratore Alessandro Scimeca l’assunzione nella struttura del figlio di un amico della Cannizzo, Richard Scammacca.