Su chi ha contribuito all’insabbiamento del genocidio delle foibe grava la responsabilità di aver privato della memoria un’intera nazione, una delle pagine più tragiche della storia dell’Italia e degli italiani, sacrificata all’ideologia. Il cinismo ha vinto sulla pietà, ha disumanizzato la storia tanto da far rimanere indifferenti davanti alla pulizia etnica, perpetrata dal 1943 dai partigiani comunisti jugoslavi del maresciallo Tito, contro gli italiani stanziati nel confine orientale. Oggi è il 10 febbraio, il giorno del ricordo. Abbiamo voluto dar voce ad alcuni dei sopravvissuti che oggi vivono in Sicilia e che qui si trovarono a ricostruirsi una nuova esistenza. Queste sono le loro storie.
La vita di Gino Zambiasi inizia Fiume, suo padre in realtà originario del Trentino, si unisce ai legionari di Gabriele D’Annunzio prendendo parte a quella che verrà conosciuta come l’impresa di Fiume. Innamoratosi della città e di una donna dell’isola di Veglia, decide di trascorrere lì il resto della sua vita, così dopo un primo lavoro come poliziotto, ottiene un impiego al silurificio. Gino ha solo pochi anni quando si intensifica l’odio anti italiano, ma ha ben lucido nella mente il clima che si respirava già dopo l’8 settembre del ’43. La sua famiglia fortunatamente non ha subito perdite, ma ha visto con i propri occhi le scene dei prelevamenti effettuati casa per casa dai soldati di Tito: “Di fronte casa nostra c’era un italiano, aveva una piccola drogheria. Una mattina sentiamo la moglie gridare nella scala, dice che il marito non c’è più, che l’hanno portato via. Mario, il droghiere, non era fascista, non aveva ricoperto nessun incarico istituzionale, e non era neppure un oppositore politico dei titini, non sarebbe stato capace di uccidere una mosca nel suo negozio. Lì non bisognava essere tutto questo, era italiano e questo bastava, il loro intento era farci andare via in qualsiasi maniera. Mio padre poi, non aveva né la voglia né il tempo di correre dietro alla politica”.
Ricorda che le esecuzioni vere e proprie iniziarono nel 1945 alla fine del conflitto, particolare l’accanimento contro chiunque portasse la divisa, carabinieri, poliziotti, “persino i postini, che ai tempi indossavano una sorta di divisa, venivano scambiati per ufficiali e quindi soppressi”. Il clima di terrore diventa sempre più insopportabile per gli italiani e non basta dichiararsi sostenitori del nuovo regime marxista per avere salva la pelle, è richiesto infatti un servizio attivo nello spionaggio e nei rastrellamenti contro i connazionali. Gino Zambiasi lascia però Fiume con la famiglia solo nel 1948, il padre non voleva allontanare la moglie e i figli dal luogo in cui erano nati, gli ostruzionismi burocratici fecero il resto. Partono con in mano le sole valigie, ma sono costretti ad abbandonare la casa e tutti gli averi, espropriati dal regime, diretti al campo profughi di Trieste. “Al campo i posti letto erano separati da lenzuola legate col fil di ferro, io e gli altri bambini giocavamo a passarci sotto, trovavamo divertente questo vivere insieme a tanta altra gente, eravamo piccoli e non potevamo capire il disagio che vivevano i nostri genitori”.
Dopo poco tempo tornano nella casa natale del padre in Trentino ma “ogni agosto veniva a trovarci un vicino di casa di Fiume, un palermitano, pregava mio padre affinché scendesse con lui nel capoluogo siciliano, diceva che la città era bella come la nostra Fiume, che c’era anche il mare. Così dopo 5 anni decidemmo di trasferirci qui a Palermo, in una casa a Sferracavallo, era il 1953”. “Analizzando le cose, col senno di poi, mi rendo conto di essere un fortunato, la mia famiglia non è stata distrutta e poi qui abbiamo vissuto bene, lo stesso non può dirsi di molti amici che rimasero per anni nei campi profughi o che al ritorno in Italia furono accolti con sputi e pietre, disprezzati e accusati di essere fascisti perché avevano osato abbandonare quello che definivano il Paradiso terrestre di Tito. Per questa gente il ritorno in patria non fu tanto diverso dalla vita precedente e molti dovettero ad emigrare in Canada o in Argentina perché la situazione divenne intollerabile.” Oggi Zambiasi si definisce un pensionato felice, ha una splendida famiglia, i nipoti, e presiede l’associazione nazionale degli esuli giuliano-dalmati di Palermo.
La stessa fortuna non accompagnò tutti però. Lucia e Roberto Hoddle avevano una sorella, Enrichetta, prossima ai 18 anni, che nel 1945 si trovava a Trieste a studiare dalla zia. Alla fine della guerra, decide di tornare a Fiume per riabbracciare la famiglia, nonostante la madre glielo avesse proibito categoricamente, vedendo giorno dopo giorno l’intensificarsi della violenza slava. Ma Enrichetta non ascolta le raccomandazioni, la guerra è finita, pensa, che pericolo ci può mai essere? Così arriva a Fiume e si trattiene per un po’ fino a quando, convinta finalmente dalla madre, decide di tornarsene a Trieste. “Mia sorella uscì di casa per farsi vistare la carta d’identità” racconta Lucia, “ma quel giorno non è rientrata più a casa”. “L’indomani un’amica della mamma disse di averla vista in mezzo alle guardie, così si precipitò al carcere, dove in effetti riuscì a vederla da lontano, ma si fidò delle rassicurazioni dei partigiani che dicevano che l’avrebbero trattenuta solo 3 giorni per accertamenti. Il terzo giorno, però, trovò il carcere completamente vuoto, ad accoglierla solo le guardie. Ai tempi io avevo 6 anni e mezzo, la mia famiglia era pronta per fuggire come tanti altri italiani ma fummo costretti a rimanere lì ancora per altri 4 anni nella speranza di ritrovare mia sorella”.
Persero completamente le tracce e costretti a lasciare la città e tutti i loro averi, trascorrono un breve periodo a Trieste fino a quando, per disposizione del ministro dell’Interno, scendono in Sicilia, dove passeranno ben 8 anni nel campo profughi di Termini Imerese. In seguito si trasferiranno a Palermo dove hanno vissuto fino ad oggi. Roberto, fratello di un anno più piccolo di Lucia, ancora oggi non riesce a credere come tantissimi jugoslavi protagonisti dei massacri, arruolati dopo il ’41 nel Regio Esercito italiano, abbiano chiesto e ottenuto la pensione, e lo stesso per tutti i partigiani collaborazionisti italiani che aiutarono le truppe titine nella caccia all’ italiano, fornendo liste di nomi. Nemmeno loro pagarono mai. “Continuiamo a lottare perché si faccia verità, vogliamo sapere dove sono i corpi di tutti quelli che hanno fatto la fine di mia sorella solo per poter depositare un fiore”, dice Lucia.
Originaria di Caltanissetta era invece la famiglia di Annamaria Bruno, a causa degli impegni di lavoro del padre, Luigi Bruno, si trasferiscono a Fiume, per prestare servizio come guardia scelta presso la questura. “Avevo 7 anni quando successe la tragedia, i miei fratelli più grandi furono mandati a Bologna prima che iniziasse l’avanzata di Tito, ma mio padre da buon poliziotto non volle scappare, continuò a rimanere al suo posto. Io l’ho vissuta tutta la tragedia, sa? Quando il 3 maggio del ‘45 entrarono le truppe di Tito a Fiume, ordinarono a tutti i poliziotti di consegnare le armi e anche mio padre si appresto a fare lo stesso con gli altri, diceva che così avrebbe evitato ripercussioni sulla famiglia. Il giorno dopo venne a prenderlo a casa un collega italiano, la cosa strana fu che gli consigliò di lasciare a casa l’orologio, la penna e oggetti personali, per non farseli sequestrare. Il collega la stessa sera tornò a casa, ma mio padre no. Mia madre non vedendolo rientrare, andò subito alla questura per chiedere informazioni ma fu rassicurata dalle guardie circa normali accertamenti di rito. L’indomani, quando ci recammo al carcere di Fiume per portargli cibo e vestiti, trovammo una moltitudine di gente che come noi non aveva più visto tornare i propri familiari. Restammo lì davanti a lungo fino a quando mia madre mi disse di chiamare forte papà e io gridai con tutta la voce che avevo. Mio padre mi sentì e dalla cella in cui era rinchiuso uscì una mano. Fu proprio in quel momento che apparve un titino armato fino ai denti che sparò a casaccio sulla folla, fuggimmo. Mia madre però non si arrese, tornammo l’indomani sul posto e di nuovo chiamai mio padre, lui capì anche stavolta, ma sentimmo solo un suo debole lamento, nient’altro”.
Madre e figlia non demordono e girano senza sosta in tutti i luoghi in cui ci sono italiani arrestati, fino a quando un giorno i vicini confessano di aver visto nella notte dei camion, scortati da soldati con la stella rossa sul cappello, che trasportavano uomini seminudi, tenuti prigionieri. E’ in quel momento che cominciano a crollare le speranze, così a dicembre, si fanno convincere a fuggire da Fiume, salgono sul treno in un vagone bestiame. Un viaggio da incubo di 3-4 giorni, durante il quale avvennero continue perquisizioni da parte “dei soliti sgherri sempre accompagnati da alcuni partigiani rossi italiani, accanto a noi, in treno, c’era una giovane coppia, all’improvviso entrarono e trascinarono via il ragazzo. La moglie che tentava in ogni modo di trattenerlo a sé, venne colpita con il calcio del fucile. Ricordo bene che mia madre e altre donne provarono a confortarla mentre piangeva disperata, dicendole di pensare al bambino. Io cercavo questo bambino ma non lo trovavo, non ero abbastanza grande da capire che era incinta”. Dopo una breve permanenza a Udine nella casa dello zio, i nonni di Annamaria convinsero la madre a tornare a Caltanissetta, dove ha continuato a vivere,
“Fu grazie ai miei nonni che riuscii a continuare gli studi che mi permisero di diventare un’insegnante di scuole elementari, a loro dobbiamo tutto. Anche qui però non mi rassegnavo all’idea di non rivedere più mio padre, guardavo ogni giorno la porta nella speranza di vederlo rientrare e ricominciare la vita tutti insieme, da dove si era interrotta. Smettemmo di aspettarlo quando arrivò un lettera, nel 1948, recitava telegraficamente e freddamente che mio padre, Luigi Bruno era morto, mia madre la strappò in un impeto di rabbia Da allora l’ho vista sfiorire, e a casa non si proferì più parola sull’argomento, alcuni ci avevano anche consigliato di non fare riferimento alla vicenda delle foibe per non rischiare di perdere la pensione. Mia madre ricominciò a vivere quando nacque il mio primo figlio, al secondo ho dato il nome di mio padre”. Annamaria Bruno oggi vive a Caltanissetta ma ha sempre lottato per squarciare quell’infame muro di silenzio, ha scritto all’allora Presidente della Repubblica Ciampi, dal quale è stata insignita in memoria del padre.