PALERMO- Sul viale che porta nel cuore del Liceo Meli non ci sono più i maturandi, le foglie cadute dall’albero della scuola, nell’autunno soleggiato che noi chiamiamo estate.
All’ingresso, il cortesissimo custode dice con orgoglio. “Gli esami sono andati bene”. Ed è evidente che si sente, come è giusto che sia, parte di una squadra che scende in campo ogni giorno, non solo la domenica. Merito, anche, della persona che sta per salutare tutti perché va in pensione, la preside Francesca Vella.
E’ stata lei, con il prezioso sostegno dei suoi docenti e del personale appassionato, a trasformare per sempre questo liceo classico in una comunità. Lo era stato molte volte il ‘Meli’. Nell’autunno dell’Ottantacinque, quando gli toccò di seppellire i giovanissimi Biagio Siciliano e Giuditta Milella, falciati da un’auto di scorta. Nelle stagioni della nascente antimafia, con il movimento studentesco. Nelle battaglie per ottenere un edificio più funzionale: ed è stata vinta, perché oggi le classi sono ospitate nella splendida struttura di via Aldisio.
Ma con la preside Francesca quel percorso di unione è giunto a compimento e si è come stabilizzato. Lo dimostrano i fiori, le lacrime, i bigliettini di docenti e genitori che accompagnano il suo scolastico passo d’addio. Una lunga storia d’amore con i banchi e con i loro occupanti che, come altre che per fortuna esistono, merita di essere narrata.
“Appena sono arrivata qui – racconta lei – ho detto subito in cosa credevo e credo. E io credo che noi, i professori e il resto, esistiamo perché ci sono i ragazzi. Io so, l’ho imparato nella mia carriera cominciata con il passaggio di ruolo nell’Ottantquattro, che i ragazzi sono meravigliosi, che, se non ti seguono, è colpa tua. E so che questo è il lavoro più bello del mondo, perché sei a contatto con i ragazzi e la bellezza che emanano non ti lascia più”.
I ragazzi, di oggi, di ieri e di domani. Che sono individui, non una categoria astratta. E che, nel mutare del contesto, si trasmettono emozioni e archetipi. C’è ancora, come trent’anni fa, il timido che non ha imparato a corteggiare le ragazze. C’è ancora il superbravo che suona pure il pianoforte come Chopin. C’è il rubacuori. C’è la timidissima, la esuberante e la ragazza che ha la poesia dentro e che si sente in viaggio, dalla terra alla luna, quando ascolta. “Respiri piano senza far rumore…”.
Al centro c’è la preside Vella, alla sua scrivania, mentre piovono fiori. “Vede la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dietro di me? E’ mia. L’ho portata ovunque sono stata come un monito e un simbolo del lavoro onesto. Ora starà a casa. Le storie? Lei vuole storie… Mi lasci pensare”.
Ci pensa, la preside. E di nuovo racconta. “Quando ero a Brancaccio, c’era una bambina che si presentava a scuola truccatissima, in un modo che non aveva niente a che spartire con la sua età. Qualcuno avrebbe voluto che la redarguissi e l’avremmo perduta per sempre. Io mi sono limitata a starle accanto con affetto, a parlare con lei, a ridere insieme. A fine anno si vestiva con maglietta e jeans, perché si era liberamente accorta che quella era la sua vera dimensione”.
L’appello della memoria è dolcissimo e prolungato. “Allo Sperone, una mamma mi regalò una rosa: ‘Scusi preside, non posso regalarle altro’. Forse non ho mai ricevuto un dono più bello. Ad Atene, in gita d’istruzione, ho messo le cose in chiaro: ‘Ragazzi, qui ci sono i locali notturni, ma a mezzanotte ci incontriamo in albergo. Mi raccomando, siate degni della mia fiducia. La risposta. ‘Preside, noi vogliamo restare con lei’”.
Con le storie fioriscono i nomi, come una cascata zampillante di felicità. E ogni nome reca con sé uno zaino, forse gli occhiali, i quaderni, il diario, il colore dei sentimenti.
“Abbiamo sviluppato progetti comuni per le classi – dice la preside -. I risultati nelle prove Invalsi (i test del Ministero per valutare l’istruzione, ndr) sono stati lusinghieri. Gli studenti sono migliorati moltissimo, non perché noi siamo stati indulgenti, ma perché siamo riusciti a condurli a un livello superiore. Grazie all’abnegazione dei professori, abbiamo affrontato al meglio la Maturità al tempo del Coronavirus. Ogni studente si è misurato con un test prima dell’esame circa la sicurezza. Cosa voglio lasciare ai miei ragazzi? Una certezza. Li amo, li ho amati e amerò quelli che verranno, anche se io non sarò più qui”.
I busti severi che ritraggono personalità classiche in effigie, a questo punto, si commuovono un po’ anche loro. Il tempo si ferma, perché la scuola è l’eco della giovinezza che ha il gusto dell’eternità. Sorrisi e lacrime. Siamo foglie. In un luminoso autunno.