"Francesco vuole morire | Qualcuno eviti il peggio" - Live Sicilia

“Francesco vuole morire | Qualcuno eviti il peggio”

Antonella e l'incidente
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Antonella, a una certa ora del pomeriggio, quando la luce comincia a sciogliersi nel tramonto, si sporge dalla sedia a rotelle e guarda fuori dalla finestra. I bambini di via XXVII maggio giocano in piazza, qualche metro più sotto. Patrizia e Lucia, le figlie di Francesco Cardella e Antonella Laurendino, sono ombre contro il sole di luglio. Sono morte in autostrada, mentre tornavano da Paola, dal carcere, senza avere abbracciato papà.

Un inflessibile agente penitenziario. La negazione di un colloquio. Il viaggio. L’incidente. E’ una storia che conosciamo. Ma qui, al primo piano del padiglione G, accanto alla faccia di Antonella, i colori cambiano. Il peso non è più lo stesso. Il dolore è una cosa amara che si può sfiorare con le dita. La moglie di Francesco è in carrozzina. Ha lanciato un appello affinché il suo uomo sia riportato in cella a Palermo, da Paola, per scontare gli ultimi tre mesi di pena, perché gli sia concesso di stare accanto ai familiari, nell’ora più buia. Antonella racconta: “E’ disperato. Ha detto: ‘da qui uscirò disteso. Senza le mie figlie, voglio morire’. Ha tentato il suicidio. Adesso non è più in isolamento”.

Sperone, cuore nero della città. Un puzzo denso accompagna il visitatore per le scale. Cartacce ovunque. Una porta chiusa. Dietro ci sono persone che hanno sofferto troppo. Hanno occhi buoni. Antonella è inchiodata sulla sedia. Sopporta il suo calvario fisico e morale. Una zia la assiste. C’è una bambina che sorride. Altri bimbi giocano nella sporcizia, come se fosse il soffice tappeto del Paese delle meraviglie. Antonella si fa forza. Sussurra: “Francesco ha sbagliato, lo so. Faceva il fruttivendolo ma non campavamo. Voleva cambiare vita per le bambine. Voleva rimettersi a posto. Era all’Ucciardone. Un’estate terribile, quattrocento detenuti e quattro guardie. Ci sono state scintille, è stato trasferito. Io le guardie le capisco. Sono padri di famiglia. Sono prigionieri tra quattro mura”.

Il trasferimento a Paola, vicino Cosenza. La traversata senza sbocco. La famiglia distrutta. Le due bambine con la loro speranza. Schiantate dopo il contatto negato. “Quel giorno – dice la zia – non c’erano né il direttore, né il comandante, a Paola. Non c’è stato niente da fare. Le piccole piangevano. Erano bellissime. Erano la nostra gioia”. La zia prosegue. “Ho letto della vostra campagna, ringraziamo il garante dei detenuti Salvo Fleres. Noi non vogliamo che Francesco sia liberato. E’ giusto che paghi per la sua colpa. Almeno che sia qui, con la possibilità di vedere Antonella, con i suoi parenti. In cella, non c’è assistenza psicologica. Come si lascia solo un padre nella disperazione?”.

Profondo Sperone, cuore povero di Palermo. Qui abitano coloro che sbagliano. E subiscono il castigo. Se finiscono in carcere, non c’è un santo che li tiri fuori. Non conoscono nessuno. Bevono il calice fino in fondo. Non c’è indulgenza, né pietà. Pagano per tutti. Francesco, nella mattina delle esequie, aveva il viso di un condannato a morte. Ha perso l’amore di Patrizia e Lucia. Ha una donna che l’aspetta a casa, in sedia a rotelle. Ha una solitudine da guardare, in un parcogiochi di cartacce e munnizza. Allo Sperone, dove i bambini si confondono con la luce leggera del tramonto. E somigliano ai sogni.

(Nella foto, un particolare dell’incidente)


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