Capaci, 23 maggio 1992 – 23 maggio 2009. Sono passati 17 anni da quel giorno terribile che sventrando un intero tratto d’autostrada squarciò i cuori degli italiani onesti. Giorno terribile di fuoco, fiamme e dolore. Il giorno dell’impotenza. Lo Stato in ginocchio, l’umiliazione della Legge, la prova della tracotanza del potere criminale sul territorio.
Vennero poi i giorni della rabbia. Il dolore sordo che esplose nelle grida straziate ai funerali dove la folla vociante levò al cielo l’indignazione che non si rassegna. Giorni di rabbia, ma anche di impegno e di coraggio. Palermo piangeva i propri figli e fra questi, con rimorso e rimpianto, Giovanni Falcone, l’uomo che avrebbe dovuto saper proteggere più e meglio degli altri, ma nello stesso tempo diceva al mondo di rifiutare l’etichetta di epicentro universale del crimine che le si voleva appiccicare, che pretendeva di diventare capitale dell’antimafia. Da quell’impegno, dal volto addolorato ma deciso dei tanti siciliani che trovarono il coraggio e la forza di scendere per le strade a manifestare contro la mafia, al fianco di tanti italiani venuti da ogni parte del continente, in una ritrovata unità nazionale contro la violenza e per la legalità, prese avvio la stagione della riscossa. Una stagione lunga, difficile ai suoi inizi, contrastata, tormentata da altre stragi, altro sangue. Via D’Amelio, Palermo come Beirut, il rischio di perdere, con la morte di Paolo Borsellino, la partita. Ma, ancora una volta, allo sconforto seguì la reazione, perfino più forte. Poteva essere il colpo mortale alle speranze degli italiani onesti, che invece tornarono a fare sentire la loro voce: contro la mafia, ma anche contro i governanti che non avevano fatto abbastanza per proteggere quegli uomini, per aiutarli, per sostenerli. E dopo i giorni della rabbia e dell’indignazione vennero di nuovo i giorni della mobilitazione. Una mobilitazione dalla quale nacque un movimento antimafia di massa, che esercitò una pressione così forte da dare i suoi frutti nell‘arco di pochi giorni. Seguirono infatti assunzioni di impegno politico-istituzionale, provvedimenti legislativi ed operativi. Si avviò allora l’onda lunga della resistenza antimafia, che come un fiume carsico, pur tra emersioni e sommersioni, non ha mai smesso di scorrere. Neppure nei momenti più difficili. Neppure quando si è avuta l’impressione che la gerarchia dei valori fosse capovolta ed è sembrata prevalere una nuova voglia di convivenza con la mafia e l’illegalità, nuove forme di rimozione e approcci revisionisti con quella storia, a dispetto della memoria di chi c‘era. Neppure quando la magistratura più impegnata ha subìto la stessa sorte che aveva colpito in vita Falcone e Borsellino, ripetutamente calunniati, accusati di fare carrierismo del loro impegno, di strumentalizzare politicamente la funzione giudiziaria, di avere costituito nel Palazzo di Giustizia di Palermo un centro di potere sottratto ad ogni controllo.
Di quel 23 maggio è rimasta dunque, nonostante tutto, una traccia indelebile nella coscienza civile del Paese. Come una ferita mai rimarginata, che anzi torna a sanguinare, a riaprirsi ogni 23 maggio. Certo, ogni anniversario è soprattutto un anno in più, che si accumula, che incrementa la distanza da quel giorno, da quell’emozione. Dopo 17 anni siamo tutti più anziani, il passo è forse un po’ più pesante. Il ricordo diventa più sbiadito e aumentano i cittadini che non hanno vissuto quei giorni e non ne hanno ricordo consapevole. Il movimento antimafia è animato da giovani che nel 1992 erano appena nati.
D’altra parte, è anche vero che siamo più ricchi di esperienze e di consapevolezze. La consapevolezza della potenza della mafia, ma anche della sua vulnerabilità. La consapevolezza che è una lotta che si può vincere solo se condivisa da tanti, invece che delegata a pochi, altrimenti destinati al fallimento. La consapevolezza che l’antimafia non può essere solo della repressione, ma soprattutto dei diritti, dell’economia, della politica, della cultura. La consapevolezza che bisogna parlarne, prima ancora che nei tribunali, nelle scuole, nelle chiese, nelle famiglie, e sempre più spesso nella stampa e in tv.
Certo, non sempre si parla di mafia quanto e come si dovrebbe. Tanto c’è ancora da fare sul piano della sensibilizzazione sociale e della diffusione della cultura della legalità, molte le riforme legislative che occorrono e l’adeguamento della strumentazione antimafia è urgente. Ci sono ampi settori della società siciliana, nei quartieri più degradati come nelle classi più agiate, che con la mafia lavorano e fanno affari. La politica sembra reagire con forza adeguata alla pressione mafiosa solo nei momenti di emergenza, quando si sente in pericolo, quando vede i morti per strada. Mentre spesso prevalgono logiche di compromesso e di convivenza, quando non addirittura di convenienza. In una colpevole miscela di connivenze, compiacenze, coperture, profitti.
Talvolta anche nel mondo paludato della politica irrompono sussulti di impegno. Sul fronte carcerario, per restituire sostanza al regime penitenziario di un 41 bis che in 17 anni è stato svuotato di senso e di contenuto, anche se manca ancora la riapertura delle “carceri-simbolo” di Pianosa e dell’Asinara. Sul fronte antiracket, introducendo meccanismi premiali per chi denuncia e sanzionatori per chi tace e copre. Sussulti che nella società hanno radici sempre più profonde, sempre meno contingenti. Sarebbe stato impensabile, diciassette anni fa, un movimento spontaneo e permanente come quello dei ragazzi di “Addio Pizzo”, o l’estendersi di nuovi atteggiamenti antimafiosi di denuncia, che vanno germogliando, seppur tra le resistenze, all’interno di un’imprenditoria siciliana meno disposta a convivere con la mafia. E impensabile allora che Cosa Nostra avrebbe subito così tanti colpi alla struttura militare, costretta a sciogliere la cosiddetta “cupola”, in difficoltà perfino nel mantenimento di un efficiente racket del pizzo, falcidiata com’è da arresti e nuovi collaboratori di giustizia, da sequestri e confische delle sue ricchezze, incapace di elaborare ambiziosi piani criminali, ricondotta all’ambito più ristretto della difesa delle proprie ricchezze e della ristrutturazione della sua struttura finanziaria.
Siamo più consapevoli, dicevamo. Consapevoli anche della straordinaria capacità di Cosa nostra di risorgere dalle proprie ceneri. Attenti a non dare per dissolto un sistema di potere criminale che, nonostante tutto, è ancora forte sul territorio, e capace di adattarsi alle condizioni mutate. Vigili di fronte ad un sistema politico-economico troppo permeabile ai condizionamenti mafiosi.
Ebbene, è nostro compito e dovere, di cittadini più consapevoli a diciassette anni da quel 23 maggio, pietra miliare della nostra democrazia, fare di questa consapevolezza sempre maggiore una ricchezza. Una ricchezza da preservare, ma soprattutto da reinvestire. Investire in nuove conoscenze, passi avanti verso la verità, tutta la verità. Verità ad ogni costo. La verità sulla stagione delle stragi e della trattativa, la verità sui tanti buchi neri di quei mesi e di quegli anni. La verità perfino su di noi, sul fronte dell’antimafia, smascherando ipocrisie e imposture e professionismi che pure ci sono. Senza eufemismi e mezze misure. La verità a volte può far male, ma la verità va ricercata da tutti, perché la verità è conquista collettiva. Ed è conquista di democrazia e di libertà. Perché non c’è libertà senza verità, non c’è libertà nella menzogna o nelle mezze verità. La verità è sempre rivoluzionaria, diceva Antonio Gramsci in una frase famosa che Leonardo Sciascia citò in un romanzo altrettanto famoso. Non so se sia sempre così, ma sono certo che, come diceva Gandhi, “la verità non danneggia mai una causa giusta”.
Ebbene, se vogliamo avviare una ricostruzione della nostra Italia, una ricostruzione dai tanti terremoti che l’hanno ferita, non solo quello terribile, l’ultimo, che ha sconvolto gli Abruzzi, ma anche i tanti terremoti che ne hanno scosso l’anima, a cominciare da quello che dilaniò la nostra terra quel 23 maggio del 1992, bisogna avere la forza e la voglia di ricostruire una verità condivisa su quei giorni. Noi siamo figli di quel 23 maggio e dobbiamo sapere tutta la verità su quel giorno e su ciò che ne seguì. A tutti i costi, perché la verità non ha prezzo.
Ricostruire quei giorni e quella stagione delle stragi e della trattativa significherebbe ricostruire le fragili fondamenta della nostra democrazia, rifondarla su basi più solide. La verità è libertà. Potremmo dire, con le parole del Vangelo, “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Dipende anche da ciascuno di noi.
(dal mensile “S” di maggio 2009)