PALERMO – È sull’attendibilità di Vito Galatolo che la discussione in Procura si anima nelle ore che precedono la seduta in cui il Plenum del Csm si riunisce per scegliere il nuovo capo dei pubblici ministeri di Palermo. A proposito, oggi potrebbe essere il giorno buono.
C’è chi considera oro colato le parole del neo dichiarante e chi, invece, nutre dubbi, più o meno consistenti. Chi dubbio alcuno non ha sono il procuratore facente funzioni Leonardo Agueci e l’aggiunto Vittorio Teresi. E lo hanno ribadito ieri in occasione del fermo di Vincenzo Graziano, nuovo capomafia di Resuttana: “Le parole di Galatolo sono altamente credibili: abbiamo trovato diversi riscontri”. Nel fermo lo sottolineano pure tutti gli altri pm – Del Bene, Luise, Picozzi, Scaletta, Tartaglia – quando scrivono che “le dichiarazioni di Galatolo già trovano immediato riscontro nelle attività investigative del Nucleo di Polizia valutaria della finanza, dei carabinieri del Nucleo investigativo, della Squadra mobile di Palermo, sulla posizione dominante di Cosa Nostra nel mercato delle cosiddette slot machines e delle scommesse on line, con riferimento agli incontri con esponenti di rilievo dei mandamenti e delle famiglie mafiose per il concerto delle decisioni di vitale importanza per Cosa Nostra”.
Il riferimento sarebbe anche alla vicenda di Salavatore Cucuzza, killer di Pio La Torre e collaborare di giustizia, morto nel luglio scorso. Galatolo racconta che non fu escluso di uccidere il pm Nino Di Matteo servendosi di Cucuzza che avrebbe dovuto attirare in un tranello il magistrato, chiedendo di essere interrogato. A quel punto lo avrebbero assassinato a Roma a colpi di kalashnikov. Galatolo riferisce pure di contatti fra uomini della famiglia Graziano con il collaboratore di giustizia, avvenuti nel 2012. Il “formidabile riscontro” arriverebbe dal fatto che il neo dichiarante non poteva sapere che gli stessi contatti erano emersi durante alcune indagini, ancora in corso, della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.
Il nodo della questione va circoscritto non sulla attendibilità in generale del neo dichiarante, ma nella parte del suo racconto che riguarda l’attentato che stava programmando, assieme ad altri tre boss, contro il pubblico ministero Antonino Di Matteo. La spia della divergenza di vedute si è avuta durante la riunione della Direzione distrettuale antimafia alla quale ha partecipato il procuratore nazionale Franco Roberti. La sua presenza ha reso la riunione dialetticamente animata, ma probabilmente ha smussato l’animosità registrata in altre occasioni. Questo non vuol dire che i dubbi non siano stati messi sul piatto.
Sono stati soprattutto i pubblici ministeri che indagano sulla mafia trapanese e danno la caccia a Matteo Messina Denaro a sollevare le maggiori perplessità. Perplessità formali e sostanziali. Le prime riguardano il modo con cui il padrino di Castelvetrano, secondo Galatolo, ha fatto pervenire le due lettere per dare l’ordine di eliminare il magistrato. Messina Denaro è uno che scrive poco, anzi pochissimo, anche se qualche pizzino, nel recente passato, è stato rintracciato (escluso il lungo carteggio con l’ex sindaco Tonino Vaccarino, nome in codice Svetonio, assoldato dai Servizi segreti, al quale il latitante potrebbe avere risposto affidandosi ad uno scriba). Il boss trapanese non si rivolgeva ai destinatari precedenti appellandoli “fratelli”, oppure citandoli per nome come invece avrebbe fatto nelle missive di cui riferisce Galatolo.
Sostanziali, invece, sarebbero le perplessità di chi, fra i pm, descrive Messina Denaro come “disinteressato” alle faccende palermitane. Poco incline ad avere rapporti con i boss del capoluogo. Non per questo, però, Vito Galatolo viene automaticamente bollato come inattendibile. E qui si innesta un’altra ipotesi che un sostituto sintetizza così: “La regia di Messina Denaro è stata creata ad hoc per imporre a tutti – convinti e non – la scelta estrema di un attentato che finirebbe per danneggiare per primo proprio il latitante”. Dunque, Galatolo potrebbe essere attendibile ma non credibile il suo racconto.
I resoconti del boss dell’Acquasanta sono zeppi di circostanze, incontri e nomi che non sarà difficile verificare. Anzi, finora sono state tutte riscontrate. A parte il tritolo che non si trova e che sarebbe stato spostato chissà dove. Manca, però, la possibilità di riscontrare la fase finale e cioè il momento in cui i soli Vito Galatolo, Vincenzo Graziano, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio si sarebbero guardati in faccia per dare il via alla fase esecutiva dell’attentato. Sarebbe avvenuto in una palazzina del rione Ballarò. Era un giorno di dicembre 2012. I protagonisti sfuggirono a tre diverse forze investigative. Ipotesi “plausibile” che gli stessi pm mettono per iscritto nel fermo di Graziano. “Il monitoraggio della polizia giudiziaria anche a causa della pioggia di quei giorni e delle accortezze messe in atto adoperate dagli indagati che si accorgevano dei pedinamenti – spiegano – non riesce a carpire l’ultimo tentativo di riunione andato a segno, di cui riferirà Galatolo Vito nel suo primo interrogatorio reso ai pubblici ministeri una volta avviata la sua collaborazione con la giustizia”.
Da qualsiasi lato si guardi la faccenda sono tutti concordi – e su questo sì, c’è unanimità – nell’esprimere vicinanza al pm Di Matteo. Così come concordi sono nel definire inquietante la vicenda Cucuzza. Quello che doveva essere il piano di riserva di Cosa nostra per la nuova sfida allo Stato ci porta in un sottobosco torbido di difficile decifrazione anche per gli stessi investigatori.