Il cacciatore, stavolta, più che la preda ha dovuto studiare se stesso. Mi sono chiesto chi fossi, dove fossi, e se stessi sognando. Mi sono becchettato la ciccia di un braccio – noi cacciatori non ci pizzichiamo, ci becchettiamo – e sì: ero ancora io. Sveglio. Affacciato al balcone di casa mia, di mattina. A Palermo, anno 2012.
Laggiù erano in cinque, sparsi per la piazzetta di fronte alla scuola elementare. Indossavano magliette tutte uguali su muscoli nerastri, annodati da una vita difficile.
Sulla schiena, una sigla di cinque lettere. Non mi è stato necessario sporgermi e aguzzare la vista per leggerla e sapere. Ci sono parole, agglomerati di sillabe, che noi palermitani decrittiamo senza l’ausilio della vista. Le impariamo una volta e non se ne vanno più, come uno spavento, uno sghignazzo o una gioia che ci hanno segnato la vita. Una di queste parole è “suca”. Un’altra – absit iniura verbis – è Gesip.
Erano in cinque, erano manovali della Gesip, erano sotto la mia casa, e brandivano attrezzi da lavoro.
Confesso che la prima impressione non è stata delle migliori. Mi è sembrato che quegli uomini si trascinassero spaesati nel fazzoletto di cemento di cui dovevano occuparsi. Più che dominare i manici delle loro zappe, vanghe e picconi, mi pareva che ne fossero dominati. Lenti e traballanti nell’incedere, come a voler calmare i legni impazienti che li strattonavano, si guardavano attorno e tra di loro, in cerca di un conforto che li affratellasse, di una coordinata familiare che li riportasse alla realtà. Io non sono di quelli che fanno di tutta l’erba un fascio, ma da queste parti, nella zona benestante e pasciuta della città, alla voce Gesip corrisponde una leggenda fosca. E’ sinonimo di condotta neghittosa, di belligeranza pretestuosa, di pretese sproporzionate ai servizi resi. Mi preparavo a rinfocolare dentro di me la mala novella, dicendomi che quei cinque, messi a lavorare, non credevano ai propri occhi e alle proprie mani, in assenza di ossigeno e di gravità, sospesi in un universo parallelo dove i vecchi conti non tornavano più. Poi li ho visti cominciare.
Si trattava di ridare vita alle aiuole inaridite dall’assenza di giardinieri e dall’abbondanza di stronzi di cane. Nelle mani callose dei “gesippari” ho visto dondolare germogli carnosi, di petunie e di altri fiorellini dal petalo fragile. Andavano condotti, con delicatezza, fino alla terra, e lì piantati.
“Ecco”, ho pensato. “se esistesse un pittore di fatti civici, come nell’800, non si perderebbe questa scena. Sarebbe il soggetto ideale per raccontare la nuova fase della città”. Un’altra primavera di Leoluca Orlando, che cade d’estate.
Ho continuato a spiare i tipi della Gesip alle prese con il tenerume fiorito. Superato lo smarrimento iniziale, avevano cominciato a discutere di giardinaggio. E sembravano presi. Avevano qualcosa di utile da fare, e un bel motivo per sentirsi stanchi.