Giuseppe, il medico normale | che non voleva essere eroe - Live Sicilia

Giuseppe, il medico normale | che non voleva essere eroe

La storia di un ragazzo che voleva arrivare in ospedale, dai suoi pazienti, nonostante la pioggia.

Garofalo all'occhiello
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Un eroe non coltiva mai il preciso desiderio di diventare tale. Mille personaggi, provenienti dall’anonimato, sono diventati straordinari interpreti dell’ordinario, eroi senza volerlo, contro ogni loro aspettativa e lontano dalle proprie ed altrui intenzioni. È successo a splendidi rappresentanti delle forze dell’ordine, a intrepidi operatori della salvaguardia sociale, pompieri, militari, esponenti esemplari della società civile. Gente con l’unica, sana intenzione di perseguire, con serena consuetudine, il proprio dovere. Ed è forse questo, proprio questo, più di ogni altra cosa, ciò che va ricordato ed ammirato in loro, quotidiani eroi di ogni tempo: il passaggio involontario e miracoloso dall’ordinario allo straordinario, dal consueto all’insolito, dalla normalità all’eroismo.

Giuseppe Liotta ha scelto di fare il pediatra; i suoi quarant’anni restituiscono l’immagine di un giovane medico, nel binario professionale che lo porta alla sofferenza dei più piccoli. Ci rivediamo, in lui; Giuseppe è al suo battesimo, da medico finalmente “di ruolo”. E quando si è agli inizi della carriera di medico bisogna fare i conti con qualcosa di speciale, di aggiuntivo.

Perché, è vero, c’è un tempo d’esordio, fatto di incarichi e sostituzioni, dove la precarietà è la nota costante, come in ogni mandato lavorativo, negli ambiti più vari. Ma per un medico, l’aspirazione alla stabilità non è solo il desiderio di fermarsi per costruire la propria vita su fondamenta ferme e sicure; c’è anche e soprattutto il desiderio di riconoscere, nella materia umana che si è chiamati a trattare, la risposta ad un anelito più grande, qualcosa che lega e legherà in modo indelebile: il desiderio di guardare i pazienti e dire “sono i miei pazienti”. “I miei pazienti”: si badi bene, qui il senso del possesso è inesistente; quel ‘miei’ esprime, piuttosto, responsabilità, prossimità, solidarietà, partecipazione all’umano soffrire in modo personale.

Le persone non si posseggono: si rispettano e si curano; contro l’indifferenza del nostro tempo cinico, a volte si amano. Dovrebbe essere la consuetudine. Giuseppe, siamo sicuri, nell’accettare un incarico lontano da casa, coronamento stabile di un percorso precario, ha anche vissuto la soddisfazione di un mandato solenne, ha certamente detto, a sé e al mondo: “da oggi sono loro, questi i ‘miei’ piccoli pazienti, i ‘miei’ veri datori di lavoro”. Perché è così, nell’espressione di un sentimento affettuoso, che si coltiva il senso del dovere, famigerato e benedetto, incorniciato nell’impegno che si professa, nella buona e nella cattiva sorte, nella guarigione e nelle difficoltà di curare, fossero anche le intemperie e il disagio di raggiungere l’ospedale.

Metti anche che lo spettacolo di un temporale, in questo nostro tempo trasformato, fa paura. Quando le strade in pochi minuti diventano fiumi in piena, dalle grondaie alte dei palazzi vengono giù cascate d’acqua e gli alberi si piegano ai limiti che le leggi della fisica consentono, fino a spaccarsi, cresce lo sgomento. Non è sempre stato così. Il passato remoto del vivere nelle nostre città ci ha regalato altri autunni piovosi e grigi, in bianco e nero, mesti e tenui da domenica pomeriggio sul tardi, con fumosi venditori di caldarroste agli angoli delle strade. L’autunno con i suoi fumi grigi è sempre stato un’anticipazione dell’inverno e dei suoi rigori; la pioggia prepara il terreno, la neve deve ancora arrivare.

Ma quando, sotto un temporale apocalittico, ci si mette in macchina per raggiungere il posto del proprio turno e i propri piccoli “datori di lavoro”, il senso del dovere è lì, sempre lì, sullo sfondo; è il​ tacito contratto non scritto che lega sé e la propria coscienza a quel piccolo universo di sorrisi e di dolore che sono i bambini, quando stanno male.

Un eroe sa di non essere indispensabile, sarebbe un vanaglorioso; un vero eroe non vive nella fantasia, non sarebbe un uomo; un grande eroe non insegue la morte: vuole salvare la vita. “Un eroe”, diceva Campbell, “ è un normale essere umano che fa la migliore delle cose nella peggiore delle circostanze ”.

Perché, nelle avversità, copre la distanza fra sé e l’obiettivo che persegue, celebrando il proprio impegno con l’arma di cui dispone, da utilizzare al meglio, da sperimentare ora, o mai più: il coraggio. Non si parli, per favore, di incoscienza; se qualcosa va detto per illustrare l’azione compiuta da un coraggioso, con gli occhi puntati verso il proprio dovere, è che è stata il suo esatto contrario: la coscienza del proprio mandato civile, di ciò che si è, del ruolo che si è stati chiamati a ricoprire, realizzando la propria umanità nel più luminoso dei modi.

E poteva andare come lui voleva; poteva arrivare un po’ in ritardo in ospedale, e serio avrebbe detto “che tempaccio, me la sono vista davvero brutta! Per favore, adesso passami quelle cartelle”, e sarebbe stato giusto così.

Invece Giuseppe ha toccato e poi lasciato terra bagnata dalla pioggia e dalle lacrime dei suoi cari. Ma dovrà pur arrivare una rassegnazione che adesso sembra impossibile e inopportuna. Dovrà venire la memoria di un tempo promettente, che sembrava non dover finire mai, e di un destino inaccettabile che chiede tuttavia di essere accettato. Scenderà la pace dentro i cuori spezzati, lo farà in silenzio. E scenderà la neve su quella terra bagnata. Scenderà, anche lei, in silenzio.

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