"Ho confessato un boss, lo rifarei" | Padre Frittitta e la Kalsa - Live Sicilia

“Ho confessato un boss, lo rifarei” | Padre Frittitta e la Kalsa

Padre Frittitta in una foto d'archivio

In cella e poi assolto per la storia del boss Aglieri. Vive in simbiosi con il quartiere. "Cristo non aveva paura dei peccatori".

PALERMO – Innumerevoli sono le storie della Kalsa. C’era, in vicolo Del Pallone, un vecchio attaccato al respiratore che sopravviveva a forza di rantoli. La sua dimora era un box di lamiera impolverato.

C’era una bambina che elemosinava, secondo consuetudine. Qualcuno le donò una bambola. Lei sorrise, ma quando il benefattore voltò le spalle, credendosi non vista, gettò il regalo in un cassonetto. C’era la signora Anna con la salumeria e i panini smisurati di via Torremuzza. Aveva perso il suo Francesco, morto in un incidente la notte di Natale, ad appena vent’anni. Oggi, il box di lamiera ha cambiato famiglia, non uso. Altri lo abitano. La bambina è diventata una donna sfiorita, ma chiede ancora la carità. La salumeria ha l’ingresso sbarrato. Tutto sembra incardinato in una didascalia a futura memoria. Impossibile andare oltre. Impossibile dimenticare.

Padre Mario Frittitta, il carmelitano che regge le sorti della chiesa di Santa Teresa alla Kalsa, non ha dimenticato. Quando nella penombra della canonica sbuca un cronista con il suo taccuino, lancia una specie di anatema: “Non parlo con i giornalisti! Mi avete trattato troppo male”. Ed è umanamente istantanea la reazione del frate, arrestato diciannove anni fa, nel novembre del ’97, sezionato dalle penne più acuminate dell’antimafia militante, prima dell’assoluzione stabilita da una Corte d’appello e ratificata dalla Cassazione: una liberazione che seguì la condanna iniziale col rito abbreviato.

Il suo ‘inciampo’? Avere impartito il sacramento della confessione a Pietro Aglieri, latitante di sanguinaria e rivoltante grandezza. Essersi recato da lui un paio di volte “per convertirlo”. Per la procura dei tempi di Caselli era un reato quell’inseguire un ipotetico pentimento religioso senza conseguenze giudiziarie di rivelazioni, arresti e manette. Per il confessore, no: la breccia nell’anima di un assassino andava comunque allargata e sondata. L’ultima sentenza diede ragione alle ragioni estreme della misericordia.

Quando finalmente la buriana svanì, don Mario commentò: “Mi è stato concesso il privilegio umano e cristiano di capire che cosa è la sofferenza degli altri”. E lo disse dopo lunghe notti trascorse in isolamento all’Ucciardone, dopo l’allontanamento da Palermo e dalla Sicilia, dopo i flash dei fotografi che lo avevano ripreso in vincoli, dopo che la crema dell’aristocrazia antimafiosa aveva trovato nel suo saio il bersaglio di ogni colpa, senza aspettare, beninteso, la conclusione della vicenda a norma di codice.

Ora, dice: “Lo rifarei. Hai capito? Lo rifarei. Io sono un uomo di Dio! Un uomo di Dio cerca la pecorella smarrita sulla roccia più impenetrabile. Sono venute processioni di giornalisti, tutti con la stessa domanda: lo rifarebbe? E a loro ho dato la stessa risposta che do a te. Sì, oggi, domani, dopodomani! Chiaro?”. Chiarissimo, tuttavia non ci interessa soltanto quello che è stato. LiveSicilia sta conducendo il suo viaggio tra le chiese di Palermo, per raccontarle, per narrare la fisionomia di chi si impegna sul campo e così inquadrare una città, nelle sue ridotte di fame e speranza. Può mancare la Kalsa?

Fa freddo. Don Mario batte i piedi, rannicchiato in un angolo, con le mani avvolte in una sciarpa e un berretto di lana calato sopra la testa. “Veru mi rici?”, sussurra, interrompendo l’Ave Maria. Infine, decide di fidarsi. E di confidarsi un po’. “Io sono la memoria storica del quartiere che non è solo il luogo di povertà che si pensa. Qui, ormai, abitano tanti professionisti che hanno ‘portato lustro’. La zona sta rinascendo. Ci sono sacche di miseria. Resistono, purtroppo. Noi operiamo come possiamo. Sono arrivato nel 1984, la canonica era chiusa. Il mio superiore mi ripeteva: ‘Mario perché aprirla? La gente tanto non viene. E io insistevo: se la apriamo, vedrai che verranno. Ho avuto ragione io”.

Padre Frittitta avvicina le dita a una stufetta. Si concede un alito di tepore. Riprende il filo: “Le persone credono di avere bisogno di cose materiali, ma hanno più necessità di calore spirituale. Abbiamo organizzato la preghiera per i malati, il mercoledì. C’è una coda di macchine…. Io non mi sento solo il prete della Kalsa, sono un sacerdote della diocesi. Mi cercano in tanti e arrivano da tutte le parti. Mi sforzo di offrire Dio, nel mio piccolo, perché è Dio che gli uomini cercano. E non lo sanno”. Fuori, grandina, mentre avanza il pomeriggio. I residenti – ex Lsu, operai comunali, precari – rincasano con la divisa dell’ex municipalizzata d’appartenenza, esposta come un’alta uniforme con le medaglie. A due passi da Santa Teresa, in via Lincoln, ansima il ‘Giornale di Sicilia’, il colosso imprigionato nella cittadella immobile che si ricongiunge perennemente con le sue disillusioni.

Altre storie, altri ricordi si annodano. C’era un maxi-schermo, testimone della storica promozione in A dei rosanero. Si giocava Palermo-Triestina. Di colpo, mancò la luce, il collegamento saltò e la folla cadde in una profonda costernazione. Ci pensò uno dei capataz a ristabilire la calma; telefonò al fratello che era allo stadio e proseguì in cronaca, via cellulare, fino alla fine, mentre la piazza, muta, lo ascoltava. Qui hanno visto piangere Salvo Ficarra, durante i funerali di una ragazza morta in un incidente in cui era rimasto coinvolto. Salvo mise da parte le risate che sono l’essenza della sua natura e pianse a lungo: lui che regala gioia di vivere, alzando appena il sopracciglio.

Detto delle ombre, rimangono le anime e i corpi da accudire. La disponibilità del frate-priore è cadenzata con orari precisi, da ufficio di collocamento. Padre Mario riceve con ampia disponibilità. “Si prega di non disturbare il lunedì”, c’è scritto nell’avviso dei turni per garantire una pausa. “Un sacerdote – dice padre Frittitta – deve possedere la generosità di Cristo che si accompagnava a prostitute e pubblicani. Questo, umilmente, cerco di praticare, pure adesso che ho settantasette anni. Chi si rivolge a me è un fratello sofferente, non mi interessa quale sia il suo peccato. Anzi, più fitto è il buio, più ho il dovere di accorrere senza pregiudizi e di mostrarmi pronto. Il peccato è una cosa, il peccatore un’altra. Tornando alla mia vicenda, uno dei ragazzi coinvolti è passato a trovarmi qualche tempo fa. In carcere si è laureato in scienze religiose. Forse il mio calvario non è stato inutile”.

“Vedo troppa devastazione – sospira il carmelitano scalzo che conobbe cella e ignominia, prima della riabilitazione -. Accolgo molti che piangono e che posso fare io? Li abbraccio. Li invito ad appoggiarsi sulla mia spalla e a deporre le lacrime sul mio saio. Per esempio, c’è un lutto terribile che ci strazia… Povera Anna: dopo il figlio è morta anche la figlia, era giovanissima. Ma lei ha tanto coraggio… Basta, davvero. Devo rimettermi a pregare. Ave Maria…”.

Anna, per tanti, era e rimane la patrona dei panini buonissimi e smisurati della salumeria di via Torremuzza. Poi, suo malgrado, era diventata la mamma che aveva perso Francesco e che aveva imbandierato la tomba del ragazzo, a Sant’Orsola, con sciarpette e vessilli rosanero. Adesso che anche Roberta è andata via, quale spalla e quali occhi conterranno il suo dolore?


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